Fiore è il cinema italiano al presente indicativo. Senza nostalgie e senza paure. Il cinema italiano oggi

di Giona A. Nazzaro

Alì ha gli occhi azzurri è uno dei film italiani che hanno segnato un’inversione di tendenza nel cinema italiano e una rimodulazione del racconto d’impronta realista. La precisione con la quale il film coglie(va) la realtà della periferia e di Ostia in particolare, intuizione questa non compresa in tutte le sue articolazioni all’epoca, senza contare l’abilità di Giovannesi di rielaborare elementi del classico noir urbano (da Dassin in avanti per giungere a Caligari), facevano del film un’opera cruciale la cui importanza oggi risalta ancora di più.

Era dunque non senza una certa apprensione che si aspettava Claudio Giovannesi al varco di Fiore, film nei cui confronti si nutrivano molte speranze e che, la si consideri già una parziale conclusione, non sono assolutamente andate disattese.

Tutto quanto faceva la forza di Ali, torna nel nuovo film con una urgenza a dir poco urticante. La capacità di Giovannesi di interfacciarsi con i corpi e la realtà dei suoi personaggi e ambienti non solo si è conservata intatta, ma trova ulteriormente accenti di verità inediti. Elemento questo che dimostra come il regista abbia lavorato verso un maggiore controllo del suo fare cinema evitando però di chiudersi in un recinto autoreferenziale.

Nella vicenda di Daphne, una giovanissima rinchiusa in una carcere per una rapina e chi si innamora del coetaneo Josh (l’ottimo Joshua Algeri), vive non solo un’indignazione altissima ma soprattutto la comprensione cinematografica – di rara efficacia – di uno spazio urbano costretta entro i rituali della libertà segregata della detenzione.

Giovannesi, pur aderendo al corpo della sua protagonista, evita la ripresa feticcio del cinema realista degli ultimi: l’inquadratura di quinta, con la macchina piazzata saldamente dietro la nuca dell’interprete. Una scelta fondamentale. Giovannesi non segue i suoi protagonisti, non li pedina. Vive assieme a loro. Li accompagna. Ed è interessante osservare come l’utilizzo del piano sequenza permetta al film letteralmente di respirare. E ogni qual volta la pur essenziale, sobria sceneggiatura scritta in collaborazione dal regista con Antonella Lattanzi e Filippo Gravino, rischia di cedere a una narrazione consequenziale, l’affondo del piano sequenza permette al film di riprendersi i suoi ritmi, restituendo alla protagonista il suo spazio.

È come se Giovannesi si conquistasse del tempo sottratto al racconto, come Daphne si prende, ogni volta che può del tempo in più sottraendolo a quello del carcere. Un dettaglio, certo, nel corpo di una narrazione controllata magistralmente ma mai soffocata dalle regole del cinema “ben fatto”. Ogni volta che Daphne scatta, inizia a correre, il film è come si sollevasse da terra (si pensa per esempio alla corsa in controluce sulla spiaggia al crepuscolo). È tale la simbiosi fra la macchina da presa di Giovannesi e la sua protagonista da permettergli dei tocchi quasi impercettibili di tensione centrifuga che reggono da soli inquadrature le quali, stando ai manuali, sarebbero “troppo lunghe”.

Esemplare quando Daphne giunge col padre sulla spiaggia nel suo giorno di libertà. L’uomo si dirige verso una baracca; lei vorrebbe seguirlo ma il suo corpo la spinge verso un’apertura sulla sinistra dell’inquadratura. Un buco nel quale si intravede il mare. E questo fremito conferisce un sapore quasi vertiginoso a quella che, in altre mani, sarebbe risultata solo un’inquadratura di servizio. In un movimento solo accennato del corpo, in un’indecisione, pulsa un desiderio, un’urgenza che non necessita d’altro se non dello sguardo del regista che in quel momento condivide il medesimo spazio e la medesima tensione. Tutto Fiore è costellato di questi momenti nei quali vibra un fortissimo nervosismo insurrezionale. Come se Giovannesi avesse volutamente “bucato” il suo film per offrire alla sua protagonista altre vie di fuga.

Ed è un dettaglio importante questo; che segnala che Giovannesi non filma dalla parte dell’ordine costituito. Non filma dalla parte della Polizia. Giovannesi resta al di qua del campo. Dalla parte di quelli che scappano. Una scelta etica. Non retorica, perché fatta e dichiarata esclusivamente attraverso i gesti del cinema. Una scelta primaria. Non ideologica.

Pur aderendo a una tradizione di racconto realista, il film di Giovannesi ne rifiuta la retorica calandosi nell’immaginario dei corpi che lo popolano. A differenza del tradizionale cinema d’impegno che viaggia con le soluzioni in tasca, Fiore osa pensare a delle possibilità alternative. Basti pensare alla giubilante fuga finale, sberleffo opposto a tutte le razionalità e ai moderatismi pedagogici che non chiedono altro che l’ossequio al conformismo dominante. Fiore è un omaggio alla bellezza della disubbidienza. Daphne, la magnifica Daphne Scoccia, un autentico miracolo cinematografico, scovata da Giovannesi, regge il film con una presenza da diva d’altri tempi. Come toccata da una grazia ineffabile, incarna il sentire del film in una danza serrata e lievissima con lo sguardo del regista.

Fiore, pur perdendo alcune delle asperità del precedente Alì, apre il cinema di Claudio Giovannesi a delle possibilità inaudite. Nel malinconico blues urbano del film, stretto sotto al cielo di una Roma sempre più desolata, colto con una giustezza impressionante, Claudio Giovannesi si conferma autore in grado di porre in relazione il presente del nostro cinema con il suo sin troppo atteso rinnovamento.

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