Il neocolonialismo è finito e i tunisini si ribellano all’atteggiamento della Francia di fronte ai risultati elettorali

Tratto dal mensile francese Régards (dicembre 2011). Titolo originale: L’Intifada tunisienne refuse la «vigilance» occidentale

Il 17 dicembre 2010 a Sidi-Bouzid, piccola città all’interno della Tunisia, Mohamed Bouazizi, giovane venditore ambulante, si uccide, dandosi fuoco dopo essere stato umiliato da un agente di polizia. Cogliendo di sorpresa geopolitici, esperti, specialisti e altri “attenti osservatori”, questo gesto disperato segna l’inizio di un’onda che, 12 mesi più tardi, continua a scuotere il mondo arabo.

Il 23 ottobre 2011, il partito islamico Ennahda esce vincitore dalle elezioni dell’Assemblea costituente in Tunisia, ottenendo 89 seggi su 217. In Occidente, e specialmente in Francia, il tono di buona parte dei commenti politici e mediatici cambia bruscamente. Nell’arco di pochi giorni si passa dall’entusiasmo per queste «rivoluzioni democratiche» dotate di ogni virtù, a un’attenzione «vigile» di fronte ai buoni risultati dei partiti islamici, realizzati (Tunisia) e a venire (Egitto, Libia). Sull’onda del «primavera araba, autunno islamista», riprendono forza quegli stessi che, per dieci anni, hanno alimentato il fuoco del pericolo islamista e dello scontro di civiltà.

Il 26 ottobre, il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, è ai microfoni di France Inter: «[I risultati delle elezioni tunisine] non modificheranno le relazioni tra la Francia e la Tunisia, ma la Francia resta vigile». «La Francia dice di fare attenzione! C’è un confine che non bisogna oltrepassare e questo confine è costituito da alcuni valori e principi democratici come l’alternanza al potere, i diritti umani e l’uguaglianza uomo-donna». «Saremo molto vigili e abbiamo i mezzi per esprimere questa vigilanza». Il ministro ha aggiunto infine che «confida» nei tunisini. Un’invettiva ridicola: presunzione civilizzatrice, autoproclamazione come guardiani del tempio – «dei valori e dei principi democratici» – e, per finire, minaccia di sanzioni economiche.



Una «vigilanza» che fa drizzare i capelli

«Vi scorgo i residui di una potenza coloniale che pensa ancora di avere dei diritti su un popolo sovrano», commenta Nourredine Aloui, insegnante, sociologo e romanziere tunisino. «Fa un po’ ridere questa Francia vigilante, questa Francia che dà lezioni. Così preoccupata dei diritti umani non lo era durante il regime di Ben Ali…».

Per Bertrand Badie, ricercatore al Centro studi e relazioni internazionali (Ceri), questa uscita di Juppé può essere letta a più livelli: «Mostra che la stigmatizzazione dell’islamismo continua a riscuotere successo; rivela un modo pericoloso e inappropriato di valutare l’islamismo come un fenomeno omogeneo e incapace di evolvere, mentre ci sono tanti islamismi e organizzazioni diverse; infine non tiene in considerazione che il passaggio da queste rivoluzioni alle elezioni non è facile: per decenni, i movimenti sociali sono stati privati di qualsiasi leadership politica…». Ma soprattutto, lo studioso sottolinea «questa costante goffagine diplomatica che consiste nell’ergersi a tutori di ciò che succede altrove. Come se il timone della diplomazia francese fosse raddrizzare i torti. Questo è, non solo superato, ma pericoloso perché il rinnovarsi perpetuo di questa tutela può provocare e alimentare sentimenti antifrancesi. Penso che il Paese che ha inventato il concetto di contratto sociale dovrebbe lasciare che i contratti sociali si facciano da sé…».

Storica della cultura e della vita intellettuale in Tunisia, codirettrice della rivista Ibla (Rivista dell’Institut des Belles Lettres Arabes) a Tunisi, Kmar Bendana giudica questa ingerenza «insopportabile». «La relazione Francia-Maghreb è sempre stata asimmetrica». «Da un lato l’opinione pubblica francese che si considerava liberale e erede della rivoluzione, della democrazia; dall’altro un’opinione nazionalista in marcia verso l’indipendenza. Quello che sta accadendo ora esce completamente da questo schema. Nel mondo contemporaneo, tutto si mischia grazie a internet, alla mobilità. Niente è lineare, e di colpo, questo sguardo occidentale non funziona più».

«Ciò che dice Juppé mi fa sorridere», dice Rim Temimi, fotografa di 38 anni “italo-francoalgerina-tunisina” impegnata nel collettivo di artisti “Dégage” nato all’indomani del 14 gennaio. «Vuole vigilare? È gentile da parte sua, ma non abbiamo bisogno di lui. Ciò che abbiamo fatto il 14 gennaio lo abbiamo fatto da soli. È tempo che la Francia e l’Europa comprendano che devono trattarci alla pari. Il colonialismo e il neocolonialismo sono finiti».



Gli islamisti non vengono dalla Luna

L’uscita di Juppé non è un caso isolato. Collima perfettamente con l’atteggiamento adottato dalla Francia nel gennaio scorso: basti pensare a Michèle Alliot-Marie, allora ministro degli Esteri, che invocava l’invio di poliziotti in soccorso al regime vacillante; o alla nomina poi a Tunisi di un giovane ambasciatore arrogante, Boris Boillon, ancora in carica. Inoltre la posizione di Juppé è confermata anche dal fatto che la Francia è stata uno degli ultimi Paesi europei a felicitarsi con i vincitori delle elezioni del 23 ottobre.

Un fallimento politico. «Perché – assicura Rim Temimi – quanto alle relazioni con l’Occidente, la gioventù tunisina, anche quella dell’interno del Paese, condivide l’idea che sia urgente andare avanti». Una gioventù che si dice anche pronta a assumere tutti i rischi inerenti al processo di transizione democratica nel quale il Paese è impegnato. «Anche se il Paese avrà una virata all’iraniana, io resterò qui», riassume la giovane fotografa.

Lungi dall’essere spaventati dalla vittoria di Ennahda, la maggioranza dei tunisini si dice prima di tutto fiera di quanto avvenuto nel Paese nell’ultimo anno. «Questa rivoluzione avanza a passi da gigante», afferma Nourredine Aloui. «Ha passato un anno di transizione senza violenze e le elezioni del 23 ottobre hanno dimostrato che c’era una grande voglia di cambiamento. Scopriamo il multipartitismo ed è un successo: tante le formazioni che saranno rappresentate in questa Assemblea.

Non sono tra coloro che pensano che le rivoluzioni sono state fatte dal popolo e stanno per essere confiscate dagli islamisti. Che io sappia, questi non vengono dalla Luna! Hanno combattuto Ben Ali e Bourguiba in passato. Non stanno rubando la nostra rivoluzione, sono stati eletti… E i paletti sono lì, Moncef Marzouki e altri siederanno all’Assemblea e contribuiranno a moderare i toni».

La nomina, il 15 novembre scorso, di Moncef Marzouki, capo del Congrès pour la République (arrivato secondo alle elezioni con 29 seggi), come presidente a interim per la durata di un anno, è un segno positivo. È a seguito di un accordo con gli islamisti di Ennahda che quest’uomo di sinistra prende in mano le redini del Paese, per il tempo necessario a che l’Assemblea costituente rediga una nuova Costituzione.

«Ad ogni modo, Ennahda non ha né il tempo, né i mezzi per diventare un nuovo Rassemblement constitutionnel démocratique (il vecchio partito di Ben Ali); e né il tempo né l’intenzione di far precipitare il Paese in uno scenario alla iraniana», considera Nourredine Aloui. «Se si allontana dal salafismo, diventerà un’organizzazione che potrà guidare il Paese dal centro, tipo Democrazia Cristiana. In caso contrario, diventerà un partito integrato nel gioco politico ma marginalizzato, che prenderà qualche voto a ogni elezione come i fratelli musulmani in Giordania».

Rim Temimi conferma che il modo con cui Ennahda gestirà la presenza dei salafiti nello spazio politico merita attenzione: «Costituiscono un rischio», dice. Ma la sua diffidenza nei confronti del partito di Rached Ghanouchi (presidente di Ennahda, ndr) è di altra natura: «Non voglio che si basi sull’esegesi del Corano. È quello che fa Ennahda e questo mi dispiace».

Portavoce in Francia del Parti démocratique progressiste (Pdp), uno dei grandi perdenti delle elezioni del 23 ottobre, Adnane Ben Youssef si spinge più in là: «Vogliamo discutere circa il modo in cui l’islam è invocato e utilizzato nel dibattito pubblico e politico, perché su questo abbiamo delle divergenze profonde con Ennahda. Ma certamente non c’è da discutere sulla loro presenza nello spazio politico».



Esigenza occidentale

Di fatto, tutto indica che per i tunisini la sfida principale oggi è di assicurare che i rappresentanti eletti non tradiscano le speranze politiche, economiche e sociali nate dalle sollevazioni: «Aspetto di vedere come questa Assemblea costituente si comporterà con le popolazioni di Sidi Bouzid, Gafsa ecc… che sono le più povere, e che hanno dato vita alla rivoluzione», dice Nourredine Aloui. «Perché il governo di transizione ha il dovere di farne la sua priorità». È questa la questione politica aperta, non quella del rischio dell’istituzione di un nuovo regime autoritario. Un rischio molto ipotetico: che si tratti di Ennahda in Tunisia, dei Fratelli musulmani in Egitto o domani delle organizzazioni che si richiamano all’islam politico in Libia, tutti hanno approfittato della primavera araba per… entrare nel gioco democratico. Un gioco dal quale, come le altre organizzazioni politiche di opposizione, erano stati esclusi in questi decenni. Tutti, in Tunisia, sono concordi nel riconoscere che Ennahda ha condotto una campagna efficace e ben organizzata. In Egitto, mentre l’esercito al potere reprime i movimenti giovanili e fa lavorare i tribunali militari a pieno regime, i dirigenti politici islamici, che a febbraio erano a piazza Tahrir, non si mobilitano più per difendere i giovani rivoluzionari.

I Fratelli musulmani discutono già da qualche mese con l’amministrazione statunitense. Lo scorso 30 giugno, Hillary Clinton ha ammesso che gli Usa avevano stabilito dei «contatti limitati». Contatti che si sono poi consolidati.

Un anno dopo l’inizio delle Intifade arabe, non è dunque escluso che un domani si possano vedere in Tunisia, in Egitto, e perché no in Libia, islamici al potere, rinnovare i contratti di assoggettamento economico e strategico sottoscritti dai loro predecessori con le potenze occidentali. Niente al momento indica che sarà così. Semplicemente la poca chiarezza che queste forze mantengono circa le loro proposte economiche e sociali non permettono di scartare questa ipotesi.

Con o senza islamisti, i desiderata occidentali non sono cambiati. «La loro principale preoccupazione è mantenere la divisione internazionale del lavoro di sicurezza. Finora, i regimi assicuravano il controllo della minaccia proveniente dal sud. E ciò che vogliono oggi, è che gli Stati conservino queste acquisizioni», analizza Vincent Geisser. Spetta dunque ormai ai «tunisini far sì che i loro rappresentanti non tradiscano ciò per cui si sono battuti da un anno», sottolinea Bertrand Badie.

Sta invece a tutti coloro che, dall’estero, vogliano sostenerli, forze progressiste comprese, uscire definitivamente dal proprio involucro neocolonialista e paternalista, ancora molto forte. Per rifondare le relazioni transmediterranee su nuove basi, ugualitarie. Di questo i tunisini sono creditori. Hanno già fatto la loro parte di cammino.
in adistaonline

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