Egitto: Il vento della rivoluzione torna a soffiare in piazza Tahrir, dopo dieci mesi esatti

Tanti ne sono passati dalla prima sollevazione della capitale egiziana, quella che ha fatto tremare per due settimane il regime di Hosni Mubarak, fino a farlo crollare, lo scorso 11 febbraio.
Ieri, centinaia di migliaia di manifestanti (un milione secondo gli attivisti del movimento 6 aprile) sono tornati a gremire il luogo-simbolo della rivolta, per il “venerdì dell’ultima possibilità”. «L’ultima possibilità per difendere questa rivoluzione», spiega Kamal Sharif, studente di economia, che negli scontri di cinque giorni fa è rimasto intossicato dai gas utilizzati dall’esercito.
«Il popolo – prosegue Sharif – chiede la fine della reggenza militare e un nuovo esecutivo transitorio». Un governo “vero”, dato che quello di Kamal Ganzouri, indicato dal Consiglio supremo delle forze armate per la successione a Essam Sharaf, non piace nemmeno un po’ alla piazza. Primo ministro sotto Mubarak dal 1996 al 1999, Ganzouri ha ormai 78 anni e da più parti non viene ritenuto in grado di poter portare avanti un compito delicato come la guida di un governo di emergenza nazionale, specialmente in questo momento.
«Fa parte del vecchio regime, – tuona Ahmed Tolba, giovane attivista del movimento socialista, mentre è intento a distribuire volantini ai passanti – Sharaf lo avevamo indicato noi, ma ci siamo accorti nel corso dei mesi che non era in grado di portare avanti le nostre istanze. I militari lo hanno tenuto in pugno fino a quando è stato costretto a dimettersi sulla scia delle proteste, per i 41 morti di questa settimana. Ora l’esercito vorrebbe porre alla guida del paese un fantoccio, gettando definitivamente la maschera e istituendo una sorta di dittatura camuffata».
Malgrado i tentativi diplomatici degli ultimi giorni, insomma, i militari restano invisi alla gran parte dei movimenti liberal-democratici che hanno animato le proteste di gennaio e febbraio, e poi quelle di luglio. Troppo il sangue versato anche per i Fratelli musulmani che, subito dopo i cruenti fatti di cinque giorni fa, avevano fatto fronte comune con i progressisti, unendosi all’indignazione popolare e rompendo per la prima volta il tacito accordo di non belligeranza con l’esercito. Già ieri, tuttavia, erano poche le barbe lunghe in piazza Tahrir, sintomo di un nuovo ravvicinamento con i militari.
«Protestare ancora rischierebbe di creare una escalation di violenza e vandalismo nel paese», ha dichiarato lo stesso movimento islamico in un comunicato, nel quale tuttavia paventa il rischio di un golpe. Eppure il partito Libertà e giustizia, espressione politica della Fratellanza, è considerato tra i più probabili vincitori delle elezioni parlamentari, il cui inizio dovrebbe avvenire lunedì prossimo, 28 novembre. Anche se l’atteso passaggio elettorale potrebbe passare in secondo piano, qualora le violenze dovessero continuare. «L’esercito non è più in grado di garantire elezioni trasparenti – afferma Omar, del movimento Ghat, uno dei più attivi durante i caldi giorni delle sollevazioni di gennaio e febbraio – all’inizio erano stati i nostri paladini. Ponevamo fiori nei loro fucili. Ci hanno difeso dai cecchini della polizia politica di Mubarak. Oggi sembra che abbiano preso il loro posto. Il massacro di questi giorni è intollerabile».
La tensione resta palpabile in piazza Tahrir, nonostante il decorso pacifico della grande manifestazione di ieri e le scuse ufficiose del Consiglio supremo delle forze armate. «Dispiacere e rammarico per i martiri del popolo egiziano negli scontri recenti» quello espresso dai militari in un comunicato diffuso tramite il social network Facebook. «Nessuna scusa», la risposta perentoria di Tahrir, affidata a striscioni e cori per tutta la giornata di ieri.
I cairoti hanno iniziato a riversarsi in piazza per la preghiera del venerdì, con l’imam Mazhar Shahin che ha arringato i fedeli, affermando che le proteste continueranno fino a quando l’Egitto non avrà un vero governo di emergenza. E per la prima volta dallo scorso 25 gennaio anche l’importante imam di al Azhar, la maggiore istituzione teologica del mondo sunnita, ha preso posizione a favore dei manifestanti. «Il momento è fondamentale, – prosegue Omar – in questo momento siamo in piazza per difendere tutto quello che abbiamo ottenuto quest’anno. Non possiamo permettere che il nostro paese cada sotto un’altra dittatura militare. O, peggio, che finisca in mano agli interessi internazionali».
Nel frattempo non mancano le reazioni estere ai fatti dell’ultima settimana. A partire dall’Unione europea, che ha condannato l’eccessivo violenza usata dall’esercito egiziano contro la folla. Mentre dalla Casa Bianca è giunto l’esplicito invito affinché la transizione verso un governo di emergenza sia immediata. Tutto pronto, infine, per lunedì, quando un terzo degli elettori egiziani darà il via al primo round delle attese elezioni parlamentari. Le prime del dopo Mubarak.
Gilberto Mastromatteo – europaquotidiano

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