Condanna in primo grado per l’ex parroco di Laglio per violenza sessuale

«La vittima ha rilasciato reiterate dichiarazioni che, valutate» e unite alle «risultanze probatorie», confermano l’accusa a don Mauro Stefanoni. E questo, «nonostante l’esposizione del ragazzo» sia stata spesso «caotica, confusa» ma su dettagli «di poco conto».
Con questa motivazione, il collegio del Tribunale di Como ha motivato la sentenza dello scorso 29 maggio che ha condannato l’ex parroco di Laglio a otto anni di reclusione con l’accusa di violenza sessuale su un giovane che, all’epoca dei fatti, era minorenne.
Nelle 117 pagine redatte dal giudice estensore Paola Braggion, e firmate dal presidente Allessandro Bianchi, il collegio composto anche da Luciano Storaci ha toccato tutti i punti del lungo procedimento che si è concluso con la pesante condanna a carico del religioso. E questo – si legge – nonostante «alcune evidenti incongruenze» che tuttavia non sono state tali da «mettere in discussione la veridicità del racconto».
Molti i punti toccati nelle motivazioni, a partire proprio da come si arrivò alla prima rivelazione della presunta vittima che fu fatta ai compagni di classe nello spogliatoio della scuola. «Non si può sostenere – si legge – che le rivelazioni del ragazzo (definito un minore con problemi di natura psicologica, ndr) siano state indotte dalle domande dei compagni». Uno «svelamento dell’abuso», fatto in «un’occasione del tutto fortuita», come confermato, secondo il collegio, da quel “mi è scappato” pronunciato in dibattimento dal ragazzo, che dimostrerebbe una «rivelazione del tutto inaspettata, non precostituita e spontanea».
Un passaggio sottolineato a più riprese, e collegato alla personalità della presunta vittima – che «ricercava l’approvazione e il desiderio di attenzione» in chi gli stava accanto, amici e compagni compresi – è che dunque, dopo il «commento negativo da parte loro», avrebbe potuto ritrattare. Cosa che non fece. Tra l’altro «il ragazzo chiese e ottenne la promessa del silenzio riguardo al suo segreto».
“Fare il gradasso”
La difesa ha puntato il dito su una frase pronunciata dal giovane in aula: “Volevo fare il gradasso”, disse riferito a quelle confessioni. Ma per il collegio la presunta vittima decise di raccontare il suo segreto «per dimostrare che anch’egli, nonostante i suoi problemi, poteva competere con i coetanei, raccontando però solo i fatti veri e reali». Ed ancora si legge che «se davvero avesse voluto fare il gradasso avrebbe inventato un rapporto con una ragazzina coetanea», vantando dunque un’impresa «simile a quella dei suoi coetanei». Le motivazioni richiamano poi l’esempio di un puzzle: «La vittima – si legge – dispone dei medesimi pezzi di un puzzle che sistema diversamente ad ogni ricostruzione, ma sempre arrivando a fornire un quadro d’insieme sufficientemente compiuto». E ancora: «l’assoluta inesperienza in campo sessuale del ragazzo» nei rapporti con altre persone «legittima l’ipotesi che egli abbia facilmente potuto scambiare alcuni atti con altri».
«Le successive dichiarazioni della vittima – si legge ancora – ricalcano la prima, aggiungendo magari nuovi particolari o perché il ricordo si è chiarito strada facendo, o perché si è arricchito di particolari suggeriti dagli intervistatori nei numerosi esami che dovette affrontare». Da qui giungerebbe lo sfogo del ragazzo: “Perché non la smettono di non credermi’”.
La teoria del complotto
Le motivazioni della sentenza prendono poi di mira la “teoria del complotto” per una presunta inimicizia della famiglia del giovane con don Mauro, che però, si legge, «godeva della stima e ammirazione» del ragazzo. Ed in ogni caso «non è ragionevolmente credibile che, a causa di biechi dissidi e questioni di nessuna importanza, una mamma o una nonna possano indurre la persona più debole della famiglia a sostenere falsamente una gravissima ed infamante accusa, solo per danneggiare l’odiato parroco, esponendo in tal modo il minore al ludibrio pubblico».
I riscontri
Lunghissima poi la parte delle motivazioni dedicate ai riscontri «diretti ed indiretti» alle dichiarazioni della presunta vittima. Dalle «vocine erotiche» riferite dal giovane con cui «l’imputato si rivolgeva a lui», attitudine che denota «quantomeno familiarità, confidenza ed affetto», ai contatti telefonici («105 tra il 4 settembre 2003 e il 2 novembre 2004»), spiegati dall’imputato dall’esigenza di fissare gli appuntamenti come chierichetto che tuttavia «il parroco avrebbe potuto svolgere direttamente di persona durante i saluti quotidiani».
Ma c’è spazio in chiusura per un’altra considerazione: «Lo stesso ragazzo – si legge nelle motivazioni – in udienza ha spiegato di non avere mai visto film pornografici veri e propri». A casa poi i genitori non avevano Sky, e «nessun teste ha dichiarato di avere mai visto la vittima assistere a spettacoli pornografici o leggere riviste del genere», come era possibile per il giovane «introdurre nella propria narrazione fatti e condotte viste attuare da altri»’. E questa è «una ulteriore conferma della credibilità» della presunta vittima. La conclusione: «La condotta di don Mauro descritta nell’imputazione e sufficientemente dimostrata, configura i reati a lui contestati». La parola adesso passa alla difesa e al sicuro – e già annunciato – ricorso in appello.

Mauro Peverelli – in corriere di como

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