Chiesa «lontana», cristianesimo vicino

Come molti altri giovani studenti cattolici che parteciparono alla lotta contro la dittatura di Batista, quando l’8 gennaio 1959 ascoltai il discorso di Fidel Castro appena entrato da vincitore all’Avana pensai che vivevo un momento storico. Che iniziava una nuova era in Cuba.

E così fu. Fidel ha trasformato una neocolonia in una nazione. Ha cambiato tutta la società cubana, soprattutto recuperando la parte migliore del pensiero politico nazionalista, anticoloniale e antimperialista del XIX secolo, quello del religioso Felix Varela e di José Martí.

Nessuno dei due era marxista. E nemmeno Fidel – a differenza di Ernesto Guevara- aveva mai, almeno esplicitamente, fatto riferimento a una rivoluzione socialista durante la guerriglia.

Fu l’ ostilità degli Stati Uniti del presidente Eisenhower e dei suoi successori – che si manifestò immediatamente finanziando e armando la controrivoluzione e poi organizzando per mano della Cia la tentata invasione della Baia dei porci e quindi decretando l’embargo unilaterale – a radicalizzare la politica del leader della rivoluzione.

A mio avviso anche al di là delle – e, forse, almeno in parte contro le – sue stesse idee. Accettare l’aiuto e inevitabilmente il modello sovietico, ancora impregnato di stalinismo, fu questione di sopravvivenza. Non solo della Rivoluzione ma dello stesso leader, obiettivo di vari attentati da parte della Cia.

Fu un radicalismo persino eccessivo: Fidel decise la nazionalizzazione praticamente dell’intera economia del paese, – industria, agricoltura servizi e persino ristoranti, barberie – come pure della cultura e dell’educazione.

Fondò il Partito comunista di Cuba recuperando il movimento comunista prosovietico di Escalante (in seguito emarginato proprio per evitare che l’«amicizia» dell’Urss pretendesse da Cuba una sorta di vassallaggio come quello dei paesi socialisti dell’Est europeo).

Dichiarando il carattere socialista della Rivoluzione cubana in piena guerra fredda a meno di duecento chilometri dagli Usa, Fidel sapeva di non avere margini di mediazione, di non poter adottare misure di transizione .

In questo contesto storico veniva ridotto al minimo il ruolo della religione e soprattutto della Chiesa cattolica, nonostante l’educazione del giovane Fidel fosse stata segnata da scuole cattoliche e soprattutto dai gesuiti.

Del resto il trionfo della rivoluzione sorprese la Chiesa cattolica cubana in una posizione «tridentina», ovvero ispirata alla filosofia del Concilio di Trento (XVI secolo) e agli accenti antimodernisti e antidemocratici del Primo Concilio Vaticano (1869-70).

Una Chiesa insomma che si opponeva al liberalismo riformista e ancor più decisamente contraria alla formazione di un movimento cattolico democratico di tendenza socialista.

In quegli anni più del 75% del clero a Cuba era di origine spagnola, la maggior parte franchisti che temevano che nell’isola potesse ripetersi quello che era accaduto durante la guerra civile spagnola con «rossi» e anarchici che giustiziavano preti e incendiavano le chiese.

Le due posizioni erano rigide.

Fidel accettò che nei manuali importati dall’Urss si parlasse di ateismo. E marginalizzò la Chiesa assolutamente non in base a una concezione così grossolana di imitazione di Mosca, ma perché temeva – a ragion veduta – che in pieno conflitto con gli Stati uniti questa potesse essere un alleato del «nemico».

Fidel però era ben consapevole del messaggio liberatore del cristianesimo.

Quando nel 1971 si recò in Cile invitato da Salvador Allende appena eletto presidente si incontrò con una serie di prelati latinoamericani e si disse favorevole a un dialogo tra religione e marxismo.

Appoggiò la Teologia della liberazione, fondata quell’anno dal prete peruviano Gustavo Gutierrez Merino, che tra l’altro conteneva molti riferimenti alla rivoluzione cubana e al suo leader. La sostenne anche quando un’ala del movimento che faceva riferimento alla Teologia della liberazione appoggiò e partecipò alla guerriglia, come nel caso del prete colombiano Camilo Torres.

E nonostante i sospetti che tale movimento cattolico guerrigliero suscitava in una parte di dirigenti del Partito comunista cubano, ligi alle indicazioni di Mosca che era contraria ai «focos» di lotta armata.

Ma Fidel fu ben chiaro nell’affermare che a Cuba vi era già una rivoluzione, diretta appunto dal (suo) partito comunista. E che per questa ragione non ammetteva alcun ruolo politico-sociale della Chiesa cattolica nell’isola.

Questa situazione si mantenne fino allo storico viaggio nell’isola di papa Giovanni Paolo II nel 1998.

L’Urss era implosa lasciando Cuba isolata ed in una tremenda crisi economica (-25% del pil). Fidel aveva bisogno di investimenti esteri e papa Wojtyla con il suo famoso appello «Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba» gli forniva una importante sponda.

Iniziò in questo modo una sorta di cauto riavvicinamento a una Chiesa guidata da un vescovo pragmatico come Jaime Ortega che portò 18 anni dopo il Vaticano e lo stesso papa Francesco a giocare un ruolo fondamentale di mediazione per dare inizio al processo di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra gli Usa e Cuba e al viaggio del presidente Barack Obama all’Avana.

Il Manifesto

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