Pedofilia preti servono in Italia grandi inchieste

Non c’è giornalista al mondo che non abbia sognato di vestire i panni di Bob Woodward o Carl Bernstein, i due reporter del Washington Post autori dello scoop del secolo scorso, il Watergate, che portò alle dimissioni del presidente americano Richard Nixon, reo di spionaggio nei confronti del Partito democratico. Era il 1972 e il mondo visse un grande choc collettivo.

Non sappiamo se lo stesso sentimento di sana invidia professionale i giornalisti di oggi l’abbiano maturato nei confronti del pool di reporter del Boston Globe, autore del più sconvolgente scoop del nostro secolo (2002), ovvero la scoperta di una impressionante rete di sacerdoti pedofili che infestavano la diocesi di Boston e che purtroppo godeva del silenzio e della copertura del cardinale Bernard Francis Law. Quattro reporter coraggiosi e un direttore ebreo sono riusciti a fare la differenza, innescando una sequenza di indagini in tutto il mondo e provocando la solida reazione di Papa Benedetto XVI e poi l’azione riparatrice di Papa Francesco.

Il dubbio sorge grazie alla visione del film “Il caso Spotlight” rilanciato da Sky a distanza di un anno dall’arrivo nelle sale italiane. Un dubbio legittimo perché in Italia non possiamo vantare nulla di simile. Di sicuro, non lo è stata l’operazione “Mani pulite”, teleguidata dalle procure e da quella parte della giustizia italiana che forniva materiali di prima mano ai giornalisti. Così come, certa recente e fortunata pubblicistica italiana che ha messo nel mirino il Vaticano, si è fondata prevalentemente su carte riservate che una manina interessata ha passato a giornalisti a dir poco disinvolti. Tutt’altro che giornalismo investigativo.

E ancora le recenti notizie di sacerdoti a dir poco infedeli e dai facili costumi sessuali sono frutto più di casuali incroci di cronaca, piuttosto che di un lavoro investigativo. Anche se, accettiamo scommesse, d’ora in poi si moltiplicheranno sui rotocalchi e anche in tv le confessioni di amanti dei preti e racconti più o meno verosimili. È già accaduto nei giorni scorsi e si ripeterà in futuro. Non si sfugge alla regola del filone narrativo pruriginoso e alla diffusa curiosità che suscita. Inevitabile anche lo slittamento dall’eterosessualità alle perversioni di vario genere e all’omosessualità. Circa la pedofilia, invece, con un certo sollievo si registrano al momento solo casi isolati e comunque perseguiti.

Nulla, dunque, che abbia a che vedere con lo spirito civile del Watergate o di Spotlight. Che pure dovrebbe stare a cuore a chi fa comunicazione, soprattutto se credente. C’è una frase in Spotlight, pronunciata da un avvocato delle vittime, che non dovrebbe lasciarci dormire sonni tranquilli: “Se ci vuole una comunità per crescere un bambino, ci vuole una comunità per abusarlo”.  Ecco il cuore del problema: la comunità. E i credenti vivono in comunità in cui la relazione umana è il fulcro, anche se a cementarla dovrebbero essere la vita di fede, l’esperienza cristiana e la carità vissuta. Ma anche nelle migliori comunità il male è in agguato e quello della pedofilia è certamente fra i più insopportabili, soprattutto se il carnefice veste i panni del ministro di Dio. Ecco, in quella frase c’è un monito a chi fa informazione: mai staccare gli occhi dalla comunità (anche quella dei credenti). E soprattutto non fermarsi dinanzi al potere.

Piuttosto, nel tempo della “parresia” invocato da Francesco, i comunicatori cattolici non dovrebbero avere alcun timore nell’alzare lo sguardo e renderlo più acuto. Anche all’interno delle comunità cristiane. Da che parte comincia la trasparenza se non da casa nostra? A noi la responsabilità di dare dignità e spazio alle buone notizie come ci chiede il Papa, ma anche il dovere di raccontare (bene) il male.

farodiroma.it

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