Cultura / Jherinimus Bosch e Venezia

In un piccolo ritratto inciso da Cornelis Cort nella seconda metà del ‘500, c’è la figura a mezzobusto di un uomo dallo sguardo attonito con alle spalle un quadro con mostri, draghi e fiamme. E’ l’immagine di Jheronimus Bosch, un artista olandese maestro di “mostriciattoli, incendi e incubi”, che, come dice il testo latino dell’umanista Dominicus Lampsonius sulla parte inferiore dell’incisione, “ha saputo dipingere bene ogni segreto anfratto dell’Averno”. Il ritratto apre la suggestiva mostra dedicata a Bosch e Venezia, nelle sale dell’Appartamento del Doge, a Palazzo Ducale, co-prodotta dalla Fondazione Musei Civici di Venezia e dal Museo Nazionale Gallerie dell’Accademia, a cura di Bernard Aikema, dal 18 febbraio al 4 giugno prossimi (catalogo Marsilio).

Una esposizione – dopo le due retrospettive nei 500 anni dalla morte dedicate a Bosch a ‘s-Hertogenbosch, sua città natale in Olanda, e a Madrid, dove è raccolto il maggior numero di opere dell’artista olandese – che nella città della pittura cinquecentesca della luce e del colore sembra avere il sapore della provocazione. Eppure, proprio nella città lagunare sono custodite, alle Gallerie dell’Accademia, le uniche tre opere di Bosch presenti in Italia e sono tre capolavori: Il martirio di santa Ontocommernis (Wilgefortis, Liberata), tre santi eremiti e Paradiso e Inferno (Visioni dell’Aldilà). Due trittici e quattro tavole, recentemente restaurati, che sono la summa dell’arte di Bosch tramandata nei secoli. Tre dipinti, nella prima sala, che, sul piano curatoriale, diventano anche il pretesto per una “narrazione” che chiama in causa un intero ambiente, quello del collezionismo ‘cosmopolita’ veneziano del ‘500, e altri due personaggi: il cardinale Domenico Grimani, nella cui ricca collezione le opere entrarono – di tre dipinti dell’artista olandese parla il manoscritto di Marcantonio Michiel nel 1521 (appena cinque anni dopo la morte dell’artista) – e Daniel Van Bomberghen, mercante e imprenditore fiammingo che si ritiene abbia individuato i tre dipinti nella bottega di Bosch e organizzato il loro ingresso nella collezione del nobile prelato veneziano. Sono intrecci di vicende umane, di culture, di gusti di un una città che guardava ad Oriente e intratteneva rapporti con il Nord Europa.

Di un ambiente colto attratto dal mistero e dalla visioni oniriche. Procedendo per ‘tappe’, la mostra parla di un artista di “mostri e sogni” intriso della cultura religiosa dell’epoca – nella “battaglia tra il bene e il male”, direbbe il curatore – che viene cercato da un collezionista presente nella terra di Tiziano e Giorgione; dell’esistenza a Venezia di una “moda” pre-boschiana fatta di passione per il fantastico e il mostruoso, per il sogno. E’ un racconto affascinante che si sviluppa attraverso 50 opere, a partire dai dipinti di Jacopo Palma il Giovane (Ritratto dei cardinali Domenico e Marino Grimani), Quentin Massys (Ecce Homo), Jan van Scorel (La Torre di Babele) ai disegni e incisioni di Durer, Brueghel, Cranach e Campagnola; ma anche di manoscritti, volumi a stampa o bronzetti con satiri, draghi o mostri. La mostra – l’ultima sala è dedicata alla visione virtuale del mondo onirico di Bosch – ha anche il sapore di una ‘tappa’, inquadrata tra il ‘500 e il ‘600, di un’analisi dell’artista olandese e del suo lascito che potrebbe allungarsi fino al contemporaneo, fino al Surrealismo o al Dada.

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