Papa Francesco e Donald Trump, le intese (im)possibili

Nel mondo ridisegnato dall’elezione di Donald Trump, non è così scontato che la Città del Vaticano e il suo sovrano finiscano sulla nuova black list degli «Stati canaglia».

 Già molto prima dell’8 novembre, la sola idea dello scontro incombente tra il leader politico più potente del mondo e il vescovo di Roma solleticava i riflessi condizionati del sistema mediatico globale. Venivano tracciate senza troppa fantasia le rotte di collisione quasi obbligate tra il nuovo comandante in capo che minaccia deportazioni di immigrati e il papa argentino dei viaggi simbolo a Lampedusa e a Lesbo che definisce «un atto di guerra» i respingimenti in mare dei barconi di disperati. Ma appena dopo il trionfo elettorale del magnate newyorkese, il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano e capo della diplomazia papale, ha iniziato a sgombrare il campo dalle facili congetture, inoltrandosi con parole concilianti nella terra incognita della nuova stagione dei rapporti Usa-Santa Sede. Parolin ha preso atto con rispetto «della volontà espressa dal popolo americano attraverso questo esercizio di democrazia». Ha fatto gli auguri al nuovo presidente «perché il suo governo possa essere davvero fruttuoso» assicurando «la nostra preghiera perché il Signore lo illumini e lo sostenga al servizio della sua patria», ma anche «al servizio del benessere e della pace nel mondo». Aggiungendo che «oggi c’è bisogno di lavorare tutti per cambiare la situazione mondiale, che è una situazione di grave lacerazione, di grave conflitto».

Rispetto alle esternazioni di giubilo espresse per la vittoria di Trump dai massimi esponenti del patriarcato di Mosca, la sobrietà calibrata delle parole di Parolin è di per sè eloquente. Ripropone il rispetto per i poteri costituiti e le legittime autorità espresso tradizionalmente dalla Chiesa, che da san Paolo prega «per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità». Segnala che la Santa Sede e Papa Francesco non hanno patenti di legittimità da concedere o da ottenere, o interessi e «agende» propri da rivendicare o da concordare con il prossimo inquilino della Casa Bianca. Lascia aperta la possibilità che proprio la palese assenza di affinità elettive tra l’attuale successore di Pietro e il successore di Obama possa paradossalmente liberare il magistero papale e la missione della Chiesa da condizionamenti politici e culturali con cui anche la Santa Sede ha dovuto fare i conti negli ultimi decenni.

 

La realtà e le caricature

I segnali della distanza oggettiva tra il Tycoon diventato presidente e il papa argentino erano stati gonfiati un po’ ad arte lo scorso febbraio, in occasione della visita di Bergoglio in Messico. Trump aveva attaccato briga: Fox Tv gli aveva chiesto un parere sulla messa per i migranti che il Papa avrebbe di lì a poco celebrato al confine tra Ciudad Juarez ed el Paso, e lui aveva definito il vescovo di Roma come «una persona molto politica», che «non capisce i problemi che ha il nostro Paese» e il «pericolo del confine aperto che abbiamo con il Messico». Sul volo di ritorno verso Roma, intervistato sulle esternazioni riservategli da Trump, il papa non aveva usato i toni sfumati, dichiarando che «una persona che pensa soltanto a fare muri, sia dove sia, e non a fare ponti, non è cristiana». Trump aveva controribattuto per via mediatica che «per un leader religioso, è scandaloso mettere in dubbio la fede di una persona». E poi aveva rincarato la dose, ipotizzando che in caso di attacco jihadista contro il Vaticano il papa «vorrà e pregherà soltanto che Donald Trump sia Presidente, perché questo con me non potrebbe accadere».

Prima della «scazzottata virtuale» di febbraio, il successore designato di Obama alla Casa Bianca aveva avuto espressioni più delicate nei confronti del papa argentino. Il 25 dicembre 2013, primo Natale del pontificato bergogliano, aveva lanciato un tweet per far sapere al mondo che «il nuovo papa è un uomo molto umile, tanto quanto me, e questo probabilmente spiega perchè mi piace così tanto».

Al netto dei giochi mediatici e delle pose caricaturali, non si possono minimizzare i punti di contrasto oggettivo tra l’agenda Trump e le urgenze pastorali e sociali più avvertite da papa Francesco e da alcuni suoi stretti collaboratori.

L’allungamento del muro di separazione con il Messico promesso con insistenza durante la campagna elettorale è solo il dettaglio più vistoso e simbolico della totale disarmonia tra gli slogan a presa rapida di Trump e i mantra del papa argentino: il primo promette deportazioni di massa di immigrati, mentre il secondo parla al Congresso Usa come «un figlio di immigrati, sapendo che anche tanti di voi sono discendenti di immigrati». Il primo vince cavalcando le pulsioni islamofobiche di parte degli elettori Usa, mentre il secondo chiama «fratelli» i musulmani e respinge in maniera insistente ogni identificazione sommaria dell’islam come religione per natura portata alla violenza. Il primo promette di eliminare le gun-free zones e di permettere l’ingresso delle armi anche nelle chiese, in ossequio al diritto dei cittadini Usa a detenere e portare armi garantito dal secondo emendamento. L’altro, il papa, indica nel traffico d’armi la causa primaria della «guerra a pezzi» in atto nel mondo. Trump esalta le qualità deterrenti della pena di morte, Papa Francesco definisce la condanna capitale «oggi inammissibile», e bolla anche l’ergastolo come una «pena di morte nascosta» (Messaggio alla Commissione internazionale contro la pena di morte, 20 marzo 2015).

Se la nuova amministrazione Usa trasformerà in programma politico la propaganda anti-immigrati e le strizzate d’occhio elettorali alle dilaganti fobie etnico-religiose, la Santa Sede potrebbe approfittare della circostanza per sgombrare il campo da fallaci mitologie mediatiche e declinare le proprie istanze in termini più articolati, smarcandosi dai sospetti di coltivare ingenui idealismi. Il confronto con eventuali pulsioni identitarie e «suprematiste» può servire per contrasto anche a smascherare le narrazioni interessate che da una parte e dall’altra vogliono confondere le sollecitudini evangeliche di papa Francesco con le retoriche della globalizzazione neoliberista, anche nella versione clintoniana.

Per il papa e per la Santa Sede la sollecitudine per i migranti non è un allineamento alle ideologie messianiche sulla libera circolazione della forza lavoro, ma ha come sorgente la predilezione evangelica dei poveri. E lo sguardo realista e critico rivolto da Bergoglio al modello di sviluppo globale è in grado di comprendere anche il malessere e la rabbia dei ceti impoveriti che negli Usa ha gonfiato di consensi la vittoria di Trump.

L’Atlantico più largo

La Santa Sede è interessata a verificare se e come il nuovo presidente riporrà definitivamente in archivio l’interventismo senza frontiere degli USA. già appannato negli anni di Obama, e che avrebbe potuto vivere un imperscrutabile revival se alle elezioni avesse prevalso Hillary Clinton. La diplomazia vaticana non ha mai offerto neanche ai tempi di papa Wojtyla cenni di assenso alle performance dispensate dagli USA in veste di solitari «esportatori armati» della democrazia e gendarmi globali della difesa dei diritti umani. «Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto», ha detto nell’agosto 2014 Papa Francesco al giornalista americano che sul volo di ritorno dalla Corea gli aveva chiesto se approvava «i bombardamenti degli Stati Uniti» scatenati sui jihadisti in Iraq per «prevenire un genocidio» e difendere «anche i cattolici».

Anche il cambio di passo che si preannuncia nei rapporti tra gli USA di Trump e la Russia di Vladimir Putin non è destinato a creare apprensioni nei Palazzi vaticani. Fin dall’inizio del suo pontificato, papa Francesco e la sua diplomazia hanno sempre sabotato nei fatti il «cordone sanitario» che circoli e apparati occidentali volevano stendere intorno al leader del Cremlino. E Putin – venuto a Roma per incontrare Bergoglio già due volte – ha mostrato con segni eloquenti di non considerare il vescovo di Roma come una specie di cappellano dell’Occidente a guida nord-atlantica. Nell’aprile 2015, mentre infuriavano gli attacchi turchi alle espressioni papali di riconoscimento del Genocidio armeno, il Presidente russo ha detto: «Io ritengo che il Papa ha una tale autorità nel mondo che troverà il modo di ottenere comprensione con tutte le persone della terra, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa».

Le nuove, possibili concordanze tra Putin e Trump andranno misurate in primo luogo nel quadrante del Medio Oriente e sul terreno delle tensioni tra Russia e repubbliche ex sovietiche dell’Europa orientale (Ucraina e Stati baltici). E proprio su questi due scenari un calo della tensione conflittuale tra Mosca e Washington appare in linea con gli auspici della diplomazia d’Oltretevere. Nel settembre 2013, mentre sembrava imminente l’intervento militare occidentale contro Damasco, papa Francesco aveva inviato proprio a Vladimir Putin la lettera-appello in vista della riunione del G20 a San Pietroburgo, dove tramite il Presidente russo si era rivolto ai potenti del mondo per chiedere loro di abbandonare «ogni vana pretesa di una soluzione militare» della crisi siriana. Con quell’intervento, il vescovo di Roma aveva anche implicitamente ribadito che la Russia è un attore globale non emarginabile nella ricerca di soluzioni per sanare i conflitti e risolvere le crisi regionali.

Da allora, l’intervento militare della Russia a sostegno di Assad ha stravolto gli scenari sui fronti di guerra siriani. Dal Vaticano non sono arrivate benedizioni né per i raid aerei di Mosca – consacrati come «Guerra Santa» contro il jihadismo da alcuni esponenti del Patriarcato di Mosca – né per quelli compiuti in Iraq dalla coalizione a guida USA. Il cardinale Parolin ha ribadito anche lo scorso 13 novembre che l’unica possibile uscita dal sanguinoso groviglio siriano è quella politica. Adesso il possibile accomodamento russo-statunitense sul teatro di guerra siriano potrebbe aprire concrete vie d’uscita negoziata dal conflitto, accantonando la pretesa di porre come condizione previa l’uscita di scena forzata di Assad. L’arcivescovo Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, durante gli anni di guerra è rimasto a Damasco, mentre le sedi diplomatiche occidentali nella capitale siriana chiudevano una dopo l’altra per marcare la distanza dal regime. E papa Francesco, con scelta carica di suggestioni, lo ha creato cardinale al Concistoro dello scorso 19 novembre.

Anche sui contrasti russo-ucraini e su quelli tra Mosca e gli Stati baltici, l’annunciato disimpegno USA depotenzia le politiche di pressione occidentale sul Cremlino, esercitate anche attraverso le sanzioni economiche anti-russe disposte dall’Unione europea, in vigore fino a gennaio 2017. Nei conflitti e nelle tensioni regionali, la Santa Sede non ha preso posizioni compiacenti per le istanze nazionaliste che caratterizzano anche ampi settori della Chiesa greco-cattolica ucraina. «Papa Francesco e la Segreteria di Stato» ha riconosciuto lo stesso patriarca Kirill «hanno preso una posizione autorevole sulla situazione in Ucraina, evitando affermazioni unilaterali e invocando la fine della guerra fratricida».

Le potenziali convergenze sull’asse geopolitico tra la Santa Sede e la nuova amministrazione Usa non oscurano e non cancellano la distanza all’apparenza incolmabile tra l’approccio inclusivo e umanizzante della Santa Sede alle tensioni etniche, religiose e sociali e le parole a ruota libera indirizzate dal candidato Trump contro i musulmani, l’accordo sul nucleare con L’Iran e la ripresa dei rapporti USA-Cuba. Ma tale palese lontananza manifesta la liberazione definitiva della Santa Sede dalle residuali ipoteche derivanti da reali o presunti «assi» privilegiati USA-Vaticano.

Anche per questo la Santa Sede, nei tempi a venire, potrebbe muoversi con minori condizionamenti nella gestione dei rapporti con le leadership delle potenze globali e regionali. Ad esempio, potrebbe essere meno intimidita da pressioni e resistenze di origine ultimamente geopolitica messe in atto anche da apparati politici ed ecclesiali made in USA che chiamano in causa le formule inappellabili della libertà religiosa e dei diritti umani per opporsi all’intesa – prefigurata come imminente – tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese su questioni relative alla vita interna e all’organizzazione della Chiesa locale. Un passaggio chiave nella vicenda tormentata del cattolicesimo cinese, che potrebbe in seguito portare anche alla normalizzazione progressiva delle relazioni tra Pechino e il Vaticano.

Il declino dell’ «ortodossia affermativa»

Sul terreno proprio delle interazioni tra dinamiche politiche e dinamiche ecclesiali, portano fuori strada le letture approssimative che vedono nel trionfo di Trump il ritorno della destra religiosa cristiana in auge al tempo dei mandati presidenziali di George W. Bush. Il nuovo Presidente USA difficilmente inizierà le riunioni nella Stanza Ovale pregando a occhi chiusi e tenendosi per mano con i suoi collaboratori, come accadeva al cristiano «born again» Bush Jr. Le tre mogli di Trump non lo rendono troppo credibile come testimonial del matrimonio indissolubile. Le sue esternazioni sull’aborto appaiono ondivaghe e contraddittorie (Philip Bump, Donald Trump took 5 different positions on abortion in 3 days www.washingtonpost.com, 3 aprile 2016), e le promesse di nominare alla Corte Suprema giudici pro-life sono, in maniera fin troppo smaccata, un espediente di strategia elettorale.

Dopo i fasti degli anni di Bush Jr, l’agenda dei temi «eticamente sensibili» è praticamente sparita dalle questioni chiave su cui si è combattuta la campagna elettorale. Da Presidente eletto, Trump ha confermato che non ci saranno cambiamenti alle leggi sui matrimoni gay sancite dalle sentenze della Corte Suprema.

Il trionfo di Trump non è avvenuto sull’agenda dei moral issues sponsorizzata come criterio quasi esclusivo delle scelte politiche dalle correnti evangelicali e neoconservatrici del cristianesimo USA, schierate naturaliter con potenziali candidati repubblicani – Marco Rubio a Ted Cruz – subissati da Trump alle primarie del Grand Old Party. E durante la campagna elettorale, tra le sigle e i leader più in vista della galassia evangelicale si sono manifestate divisioni e scontri drammatici intorno alla candidatura Trump, definito da alcuni di loro un «predatore sessuale», con prevalenza delle voci contrarie al candidato risultato vincitore. Nella lista delle decine di esponenti evangelicali schierati contro Trump figuravano, tra gli altri, Michael Cromartie, vice-presidente dell’Ethics and Public Policy Center – storica think tank del pensiero neo-conservatore, da sempre schierato sul versante repubblicano – e Mark Tooley, presidente dell’Institute on Religion and Democracy.

Le prime analisi del voto dell’8 novembre fornite dal Pew Research Center hanno riferito che tra i votanti protestanti ed evangelici il 58% ha votato Trump e il 39% ha scelto Clinton, mentre tra i votanti cattolici la forbice tra i consensi andati ai due candidati appare molto più stretta (52% Trump, 46% Clinton). Clinton ha raccolto il 67% dei voti dei cattolici ispanici, Trump il 60% dei white catholics. Dati sufficienti a confermare che i cristiani USA hanno certo contribuito in maniera determinante all’exploit di Trump, ma l’appartenenza confessionale non è stata il criterio guida delle loro scelte.

I dati offerti dall’analisi del voto smascherano il patetico bluff degli esponenti del neo-rigorismo cattolico USA, come il cardinale Raymond Burke, che hanno tentato di «mettere il cappello» sulla vittoria di Trump. Il vitalismo del magnate super-ricco che ha saputo intercettare il groviglio di paure e istinti reattivi diffusi tra la popolazione USA appare un corpo alieno e ingestibile anche rispetto alle teologie neoconservative e alle linee strategiche dell’affirmative orthodoxy, l’attitudine prevalente nei settori episcopali ed ecclesiali statunitensi plasmati nei tempi lunghi dei pontificati di Wojtyla e Ratzinger. Tali scuole di pensiero puntavano sulle «guerre culturali» come strumento per documentare in termini credibili e culturalmente persuasivi le verità della concezione antropologica cristiana nel contesto plurale e secolarizzato delle società avanzate. La prospettiva neo-apologetica della affirmative orthodoxy riconosceva e accettava la modernità democratica e plurale come terreno di confronto e di competizione tra visioni del mondo e concezioni morali, secondo meccanismi che valgono per l’economia di mercato. Da questo apparato concettuale prendevano le mosse anche la configurazione «lobbista» degli interventi pubblici della Chiesa, compresi quelli che hanno espresso il dissenso di ampi settori episcopali verso l’amministrazione Obama e la sua riforma sanitaria, sulla trincea dei valori eticamente sensibili. Adesso, tale sforzo di attestare attraverso la mobilitazione culturale e politica il valore universale della visione antropologica cristiana appare fuori registro rispetto alle pulsioni confuse e anti-establishment che hanno portato Trump alla Casa Bianca. Se i vescovi USA avessero la pretesa di rivendicare «padrinaggi» rispetto a tale intreccio di risentimenti, ansie di rivalsa, nausea per la retorica liberal e venature xenofobe, rischierebbero di dover cercare giustificazioni para-teologiche anche alla vendita online delle armi, all’islamofobia e ai muri anti-immigrati.

Intorno al paradigma neoconservatore si è coagulato negli ultimi lustri l’unico partito ecclesiale ramificato e influente, di matrice nord-americana ma in grado di aprire sezioni «nazionali» in tutto il mondo, e costantemente interessato a farsi ascoltare «dall’interno» anche in Vaticano. La contiguità di tale corrente con settori del Partito repubblicano statunitense ha contribuito in diversi casi ad aumentare la sua capacità di persuasione anche Oltretevere. Il possibile disimpegno della presidenza Trump dalla fornitura di sponde politiche alle istanze «teocon» potrebbe essere percepito con sollievo anche da papa Francesco e dalla Santa Sede. Proprio l’estraneità dell’eccentrico tycoon alle dinamiche del potere ecclesiastico degli ultimi decenni potrebbe attutire intralci politici e geo-politici alla «conversione pastorale» suggerita a tutta la Chiesa da Papa Francesco.

E anche la Chiesa Usa potrebbe approfittare della fatale e incolmabile distanza del nuovo Presidente, della sua sponda scomoda e irritante, per provare a liberarsi dalla polarizzazione ideologica che affligge in maniera patologica il cattolicesimo a stelle e strisce.

Il terreno minato del «persecuzionismo»

I futuri rapporti – pieni d’incognite – tra la nuova leadership USA, il cattolicesimo statunitense e la Santa Sede potrebbero trovare un terreno di verifica intorno a una problematica delicata e insidiosa: quella della persecuzione dei cristiani, a partire da quelli del Medio Oriente.

Nei conflitti e nelle violenze settarie che dilaniano il Medio Oriente, anche la difesa e la tutela dei cristiani è diventata argomento di competizione geo-politica. Diversi attori geo-politici provano a giocare su questo terreno la loro partita. A inizio settembre, in piena campagna elettorale, il Cavaliere Supremo Carl Anderson, leader degli influenti Knights of Columbus, partecipando a Washington alla National Advocacy Convention 2016 for Persecuted Middle Eastern Christians, aveva chiesto ad ambedue i candidati di dedicare attenzione prioritaria alla difesa dei diritti dei cristiani mediorientali perseguitati. A metà novembre i vescovi cattolici USA, riuniti a Baltimora per la loro Assemblea annuale, nei loro interventi e colloqui hanno ribadito con insistenza la necessità di sensibilizzare parrocchie e politici sulla persecuzione dei cristiani.

Negli Usa esistono decine di lobby e gruppi di pressione – come l’organizzazione In Defense of Christians – sorte con l’intento di influenzare i Policy-makers e spingerli ad adottare sanzioni contro i Paesi dove i cristiani sono maltrattati. Ma a innalzare la bandiera della difesa dei cristiani non sono solo i circoli nordamericani. La Russia di Putin, in sinergia con il Patriarcato di Mosca, continua a rivendicare con forza il suo ruolo di potenza «protettrice dei cristiani» affermato anche in margine all’intervento russo nel conflitto siriano, quando USA, Francia e Regno Unito appoggiavano i ribelli anti-Asad infiltrati già allora dai gruppi jihadisti.

Viste le premesse, anche l’aiuto ai cristiani perseguitati potrebbe fornire nuovi motivi di convergenza pratica tra gli USA di Trump e la Russia di Putin. E il Presidente statunitense appena eletto avrebbe modo di proporsi anche lui come «difensore dei cristiani» e acquisire per questa via crediti di consenso politico. Nel contempo, proprio la questione dei cristiani perseguitati rischia di essere declinata in chiavi ambigue, ideologiche o strumentali, divenendo pretesto per alimentare le propagande islamofobiche e gli equivoci di taglio neo-coloniale che considerano i cristiani in Medio Oriente come «ostaggi» della maggioranza islamica, sempre bisognosi dell’aiuto e della tutela esterna delle potenze straniere. Se l’eventuale futura sinergia mediorientale tra Russia e USA dovesse riproporre tale approccio distorto alla condizione dei cristiani in Medio Oriente, potrebbe essere utile riproporre lo sguardo che la Chiesa ha sempre portato alle vicende di martirio e persecuzione. Lo stesso testimoniato oggi da papa Francesco, il quale nella sua insistita predicazione sul martirio non si mescola mai con le campagne dei circoli occidentali che strumentalizzano disgrazie e persecuzioni dei cristiani d’Oriente per fomentare sentimenti islamofobici generalizzati. E suggerisce a tutti che è finito il tempo delle Guerre culturali e delle «guerre sante». Comprese quelle che qualcuno adesso invoca contro l’irritante Donald Trump.

Gianni Valente in Vatican Insider

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