Matrimonio: passione, azione, virtù e sacramento. La teologia dopo “Amoris Laetitia”

Negli ultimi giorni, come attesta anche il post precedente, una serie di occasioni e di spunti mi hanno condotto a riprendere il nodo centrale della tradizione sul matrimonio, in rapporto alla sua nozione giuridica e dogmatica. Come secondo una armonia nascosta, ieri ho ricevuto, da un gentile collega e frequente interlocutore di questo blog, una domanda, che mi pare del tutto adeguata per suscitare una risposta in cui esporre meglio una serie di questioni che agitano da tempo il corpo ecclesiale, con una urgente esigenza di parole il più possibile chiare e non banali.

Riporto qui la domanda, del prof. Juan José Silvestre:

Caro Andrea,
La lettura del tuo articolo mi fa domandarmi, 
se un matrimonio canonico è valido ma i contraenti 
si divorziano e contragono nozze civilmente questa 
seconda unione è anche matrimonio?
Fino adesso proprio perché quella situazione era 
irregolare, e non costituiva un vero matrimonio 
visto che i contraenti stavano uniti in un matrimonio 
precedente e se è valido nessuno mi pare lo possa 
dissolvere, allora erano incoraggiati a lasciare 
quella unione o, se questo non era possibile, 
a vivere come fratello e sorella, proprio 
perché non erano un matrimonio.
Adesso del tuo articolo mi pare capire che anche 
questa seconda unione è matrimonio. Allora 
cosa succede con il primo matrimonio?
Grazie mille

Caro Juan,

Per cercare di rispondere alla questione bisogna partire da lontano, ossia da un mondo nel quale il diritto matrimoniale è stato elaborato, in larga parte, dalla Chiesa, all’interno di una società tradizionale. In questo mondo è stata elaborata una raffinatissima teoria del matrimonio, che supponeva un accurato crescendo dalla natura, attraverso la cultura, fino alla fede. La grande teologia e canonistica medievale sapeva bene che diritto e teologia comprendono, con le necessarie differenze, un fenomeno complesso, in cui conta non solo il “sacramento”, ma anche la virtù, la azione e la passione. Potremmo quasi dire che Tommaso riconosce che l’unirsi e il generare rispondono, contemporaneamente, a logiche naturali, a logiche sociali e a logiche ecclesiali, che si intrecciano con forza, ma non si lasciano mai ridurre le une alle altre.

Con il Concilio di Trento, e solo da allora, al sorgere del mondo moderno, la Chiesa si è preoccupata di una “forma canonica”, che prima non era richiesta. Questo fenomeno ha introdotto una tendenza che è cresciuta lungo i secoli e che ha raggiunto il suo apice con il CjC del 1917. Con esso troviamo la massima forma di identificazione di  dimensione sacramentale con dimensione civile e dimensione naturale.

Ma proprio in questo passaggio ultimo, accade anche qualcosa di molto grande e di difficile percezione. Proprio nel momento della massima opposizione al “mondo moderno”, la Chiesa assume una mentalità moderna nel pensare la “legge” non più come una serie di principi (canoni) da applicare con discernimento, ma come un “codice di leggi universali e astratte”. Qui inizia la storia dell’ultimo secolo, segnata dalla tensione tra “codice” e “canone”.

Nel frattempo, già da metà 800, unione e generazione divengono sempre più la occasione per contrapporre il disegno di Dio e la volontà dell’uomo: grazia e libertà tendono ad una opposizione frontale, suscitata dalla contrapposizione tra Chiesa e stato moderno. Il matrimonio è, tra i sacramenti, quello che maggiormente soffre di questa scissione, proprio a causa della sua natura composita, come stratificazione insuperabile di natura, cultura e grazia.

Così unione e generazione appaiono, in modo sempre più forte, come luoghi di polarizzazione. Da un lato Dio e le Chiesa, dall’altro gli uomini moderni. Ma questa opposizione fa male al matrimonio. Non permette di comprenderlo nella sua logica più irriducibile, ossia come grazia naturale e natura graziata. Qui sta il punto che permette di orientare la risposta alla tua domanda. Potrei dire così: i criteri di “validità” del matrimonio, in base ai quali tu sollevi la domanda, corrispondono ad una operazione di fondamentalismo teologico e di astrattezza e di irrigidimento giuridico – compiuta dalla dottrina cattolica tra fine ottocento e inizi novecento – che non corrispondono più alle esigenze né della esperienza degli uomini, né del Vangelo.

Quando sorse il mondo tardo-moderno, esso contestò una Chiesa che si interpretava come “societas inaequalis”, basata sulla autorità e sulla tradizione. Con il tempo abbiamo capito che le prime risposte ecclesiali a questa sfida erano profondamente distorte. Imitavano troppo il “nemico” per poter risultare davvero convincenti. Oggi possiamo accettare eguaglianza e libertà anche con entusiasmo, senza perdere la “differenza” che le giustifica e che apre alla fratellanza. Soprattutto nel matrimonio noi possiamo scoprire che per affermare la “autorità della comunione” non dobbiamo emarginare eguaglianza e libertà. Questo richiede oggi di elaborare una più adeguata dogmatica teologica e giuridica, nella quale la istituzione e la norma divina si compongano meglio con la libertà e la uguaglianza umana. Pedagogia del dovere e riconoscimento del diritto debbono trovare nuovi equilibri e nuovi linguaggi. La nostra dogmatica giuridica sul matrimonio è stata concepita in e per una “societas inaequalis” che resiste solo sul codice, ma non nella realtà.

Nel dibattito contemporanea giungono a queste conclusioni autori diversi, per cultura e per formazione: segnalo, a titolo di esempio, le belle riflessioni pastorali e giuridiche di Jean-Paul  Vesco, la lucide considerazioni dogmatiche di Peter Huenermann, le sorprendenti sintesi giuridiche di Carlo Fantappié.  Se la realtà è superiore alla idea, come afferma papa Francesco in uno dei principi fondamentali di “Evangelii Gaudium”, dovremmo elaborare un “modus cogitandi matrimonium” che sappia dare la parola alla realtà e che non fugga davanti ad essa. Le categorie classiche del diritto canonico – sia sostanziale sia procedurale – oggi troppo spesso non risolvono il problema, ma lo rimuovono. Che la “seconda unione” sia matrimonio o no, dipende non solo da una diversa nozione di sacramento, ma anche dal modo di comprendere natura e cultura, che in esso sono racchiuse. Ossia dal modo di concepire anche la virtù, la azione e la passione dell’amore. Non dimentichiamo che la dimensione della indissolubilità non discende dal sacramento, ma dalla natura e dalla cultura. Oggi, senza rinunciare alla grande vocazione al “per sempre”, dobbiamo riconoscere che “seconde unioni” sono luoghi di autentica dedizione e comunione. Qui non si tratta di “dissolvere” ciò che è valido, ma di riconoscere che “non c’è più” ciò che pure è esistito. Siamo di fronte a “forme di vita” nuove, a nuove forme di equilibrio tra volontà di Dio e libertà dell’uomo, che dobbiamo comprendere e non ridurre a categorie scaturite da (e adeguate a) un mondo precedente. Questo è uno dei frutti della libertà e della eguaglianza moderna. Che non è solo negazione di Dio e della Chiesa, ma anche volto nuovo di Dio e della Chiesa. Che non è solo penosa divisione, ma anche inattesa fratellanza. Ora dobbiamo saper riconoscere, discernere e accompagnare queste nuove “forme di vita” che avevamo liquidato con troppa superficialità, mediante l’utilizzo poco controllato di categorie inadeguate. Dobbiamo farlo senza nuove idealizzazioni, ma anche senza vecchie demonizzazioni.

Su questa strada impervia e meravigliosamente complicata, si è avviata con determinazione la Chiesa che si esprime in “Amoris Laetitia”. Ora sta a teologi e canonisti liberarsi da categorie inadeguate ed elaborarne di nuove, fedeli alla esperienza degli uomini e al Vangelo (GS 46). Senza il loro contributo di novità, la recezione di AL resterà molto fragile e troppo faticosa.

Ti saluto di cuore

Andrea

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