Icone e affreschi dell’antica Georgia. Nel paese della regina Tamar

L’Osservatore Romano
(Giovanna Parravicini) Certamente, il viaggio in Georgia di Papa Francesco desterà grande interesse per un Paese ai più sconosciuto. Descriverlo non è facile, data la ricchezza della sua storia, cultura, geografia ma anche la drammaticità delle sue vicende, che videro l’epoca aurea del re Davide il Costruttore e della regina Tamar (XI-XIII secolo), ma anche ripetuti e pesanti tentativi di ingerenze e di conquiste da parte dei potenti vicini. Un contributo alla sua conoscenza vuol essere la presente pubblicazione, scritta da Nana Burchuladze, storica dell’arte, docente universitaria e conservatrice del patrimonio artistico medioevale del Museo nazionale georgiano.A me resta, come chiave sintetica della civiltà georgiana, la cui cifra è certamente un’ortodossia gelosamente custodita nei secoli, l’immagine di un ragazzo — Pavel Florenskij, futuro teologo e martire — educato in una tipica famiglia di intellettuali del tempo, formalmente ortodossi e praticamente agnostici, che circa un secolo fa si aggirava fra le antiche pietre della cattedrale di Kutaisi, un tempo splendida capitale del regno georgiano e ormai ridotta in rovine, e sente risvegliarsi dentro di sé, nel profondo, una verità che — per dirla con Agostino — gli è sconosciuta eppure più intima a lui di quanto lui non sia a se stesso: «I cespugli di melograno selvatico, con le loro foglie lucide color verde scuro e i fiori rosso corallo, la vite selvatica che avviluppava gli alberi alti, e in generale la vegetazione rigogliosa risvegliavano in me ricordi di quando ero bambino. Vi sentivo una corrispondenza con la mia vita interiore, quando da solo, e non senza timore, mi addentravo tra le imponenti vestigia di quella chiesa grandissima con le volte crollate, quando vagavo tra gli enormi massi che ne ingombravano l’interno, quando saltavo tra i capitelli mastodontici delle sue colonne… Sulle pietre si scorgevano ancora diversi ornamenti e figure misteriose. Agli angoli dei capitelli tetraedrici erano appollaiati degli uccelli, una sorta di gufi, mentre sui quattro lati erano incise delle misteriose composizioni con figure di animali o di strani esseri. Per quanto potevo, cercavo di disegnare nel mio album quei segni di un mondo spirituale, senza capirli, ma turbato come dal contatto con qualcosa di a me affine… Quei muri cadenti emanavano gli effluvi spirituali di un’altra cultura, alla quale, senza rendermene conto, io tendevo con tutta l’anima. Quelle pietre vivevano e continuavano a vivere, e io non potevo non sentire le forze spirituali che vi aleggiavano e che di sé dicevano, in beffa alla fisica, molto più di quanto si potesse dire con elucubrazioni filosofiche e teologiche» (Pavel Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, 8 gennaio 1924).
Paese di storia millenaria, ricco di un vastissimo patrimonio culturale e artistico, la Georgia ne mantiene il respiro universale anche dopo la precoce conversione al cristianesimo, nel 317, quasi contemporaneamente all’editto di Milano: suoi punti di riferimento saranno sempre Gerusalemme — e dunque i luoghi santi dove visse il Signore; i monasteri dell’Oriente cristiano — da cui le provengono santi e asceti che plasmano la sua nuova cultura; il mondo greco-bizantino, con la cui regalità la Georgia non vorrà mai fare a meno di paragonarsi.
Si spiega così l’aspirazione dei georgiani a creare grandi monasteri in tutto il mondo civilizzato del tempo, dall’Athos, al Sinai, a Gerusalemme, a Bisanzio, dove poter nutrirsi alle linfe spirituali e culturali locali, ma anche offrire il proprio contributo originale alle culture in cui si inseriscono.
Il simbolo per eccellenza della cultura georgiana precristiana è l’oro: la Colchide, regione occidentale della Georgia, è il mitico Paese del vello d’oro, alla cui ricerca si avventurano gli Argonauti guidati da Giasone. L’oro, inoltre, è strettamente legato al fuoco, necessario alla sua lavorazione: e al fuoco è legato il secondo simbolo della Georgia, espresso dal mito di Prometeo, incatenato dagli dei tra le vette del Caucaso per il suo tentativo di rubare con l’inganno il fuoco per donarlo agli uomini.
La cultura georgiana cristiana non perde nulla di queste antiche ricchezze, e per esprimere la nuova fede intrecciandola strettamente al proprio passato predilige icone in oro e altri metalli nobili, decorate con smalti e pietre dure, che rendono sia nella materia che nel procedimento la preziosità dell’uomo agli occhi di Dio, e il processo a cui l’Artefice dell’universo lo sottopone con mani sapienti, per forgiarlo a propria immagine e somiglianza.
Un esempio di questa tecnica, riportato nella pubblicazione, è l’icona dell’Ascensione e Crocifissione (XVII secolo, chiesa di Shorapani, Georgia occidentale), realizzata in argento dorato e pietre preziose, che sintetizza le due scene evangeliche offrendo una straordinaria lettura della redenzione nei suoi elementi fondamentali.
Un altro esempio è la lamina d’oro con la Presentazione al tempio del Signore (XII secolo, oro, smalto cloisonné, 12 x 10 cm), che attesta la splendida tecnica di decorazione a smalto esistente in Georgia. Agli elementi tipicamente bizantini dell’opera se ne accostano qui alcuni prettamente nazionali, ad esempio, lo sfondo architettonico composto da tre templi, di cui quello centrale ha il tetto di foggia tipicamente georgiana. Un altro particolare curioso sono le calzature rosse della Madre di Dio che lasciano vedere le dita dei piedi.
Il tesoro sacro forse più prezioso della Georgia, oltre che un simbolo della sua identità cristiana è l’antichissima icona del Salvatore Acheropita («non dipinta da mano d’uomo»), attualmente al museo di Tbilisi, proveniente dal monastero di Anchi, che appartiene al piccolo gruppo di icone più antiche e particolarmente preziose che venivano considerate le prime repliche delle Acheropite.
L’icona originaria del Salvatore è datata al VI-VII secolo e dipinta su una tavola sottile, a encausto. Essa non riprende l’iconografia del Mandylion o del Keramion di Edessa, ma risale probabilmente alla Camulia, un’immagine proveniente dalla Cappadocia. Questa Acheropita — una delle immagini più vicine al mistero che da sempre affascina i cristiani, quale cioè fosse il sembiante del Signore — e le sue repliche operarono molti miracoli ed erano oggetto di vasto culto tra le popolazioni dell’Oriente cristiano.
Il simbolo cristiano per eccellenza, la croce, in Georgia ha una conformazione tutta particolare: la prima croce a giungere nel Paese fu una croce ricavata da un ramo di vite, che la Vergine affidò a santa Nino inviandola a evangelizzare queste terre: questa reliquia, conservata a tutt’oggi nella cattedrale (Sioni) di Tbilisi, costituisce una mirabile sintesi del cristianesimo, indicando la fecondità della Croce, il dono dell’Eucaristia e il mistero della Comunione («Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto», Giovanni, 15, 5).
Per il cristianesimo georgiano, inoltre, la croce ha un particolare legame con l’Ascensione, e la si raffigura nelle absidi e nelle cupole (Ascensione della croce XI secolo, chiesa di Ishkhani), per illustrare un prodigio che avvenne a Mtskheta, la città santa georgiana, qualche tempo dopo che santa Nino ebbe battezzato il popolo della Georgia.
Come si legge nelle fonti, quando il re Mirian innalzò una grande croce accanto a Svetitskhoveli, in cielo tra le stelle apparve una croce di fuoco che si fermò sopra la chiesa, mentre le stelle si allontanarono fino a raggiungere le località in cui in seguito sarebbero state edificate le prime chiese in Kartlia e Kakheti.
La croce-vite è in qualche modo l’archetipo del particolare “carisma” del cristianesimo georgiano e della sua cultura, in cui fecondità e convivialità si intrecciano indissolubilmente con una vertiginosa, irriducibile tensione alle altezze.
L’antichissima arte della coltivazione della vite e della produzione del vino in Georgia trova il suo punto di arrivo nell’arte del convivio, ancor oggi radicata nella società e scandita da gesti e rituali sacri, come quello di onorare l’ospite — segno del Divino Ospite che bussa alla porta di ogni uomo, o di libare il vino — simbolo dei doni della terra, dello scorrere della linfa vitale.
Si disegna una croce ideale, tra quest’abbondanza, questo largheggiare di auguri, di cibi e bevande, che rimanda alla dimensione orizzontale della perenne fecondità della vita, e la verticale tracciata dalle vette della catena del Caucaso, vertiginoso richiamo al divino anche per il viaggiatore straniero: «All’improvviso, a una brusca svolta a destra la gola si apre, e al nostro sguardo, vicinissimo, appare il Kazbek con i suoi ghiacciai scintillanti al sole. Impressiona per la sua possanza; alto, terribile, immoto. Ci afferra uno struggimento irripetibile: il Kazbek, davvero una creatura di altri mondi, si erge circondato dai monti che gli giurano fedeltà e ci guarda… Mi gira la testa, come se qualcuno mi strappasse dal luogo in cui sto e mi sollevasse in alto, e io mi trovassi faccia a faccia con Dio» (Knut Hamsun, In un paese fiabesco, 1910).
Nasce da questo incrociarsi di umano e divino la civiltà austera, impervia e aristocratica dell’Alto Svaneti, con le sue case-torri e la sua arte ieratica, incisiva, quasi selvaggia. I volti del Salvatore, della Madre di Dio, dei santi che ci guardano dalle icone e dagli affreschi di chiese arrampicate su alti picchi, hanno la stessa fisionomia dei fedeli che le pregano, la loro stessa fierezza e semplicità.
Nasce di qui, oltre che dall’antico mito del vello d’oro nella Colchide, l’amore per la lucentezza dell’oro, degli smalti e delle pietre preziose, di cui abbiamo già parlato. È un amore appassionato per ogni bellezza fisica e naturale, radicato però in quello che Pavel Florenskij, nato tra i monti del Caucaso, definiva l’interrogativo sul trascendente: «Il luogo in cui sono nato ha determinato per sempre alcuni aspetti della mia anima… Le cime innevate che incorniciano la steppa mi rendono cosciente sia della mia libertà sia della mia limitatezza. Le cime innevate, infiggendosi nella volta celeste, me la avvicinano e me la allontanano. La cornice delle cime innevate è altrettanto indispensabile alla mia struttura spirituale del cielo che sta in alto e di quello che sta in basso, la steppa. Non mi rassegnerò, non posso rassegnarmi a che qualcuno mi impedisca la vista delle cime con delle palizzate di legno o nascondendomele con il fumo» (lettera a Sergej Bulgakov, 15 agosto 1917).
Vi sono, infine, alcuni luoghi simbolici, che visiterà lo stesso Papa Francesco: innanzitutto la chiesa della Santa Croce (Jvari, in georgiano) a Mtskheta, la città santa della Georgia. L’antica, bellissima chiesa di Jvari sorge sul colle prospiciente il luogo del battesimo del popolo della Kartlia (antico nome della Georgia), nel punto in cui il re Mirian e santa Nino piantarono la prima croce in legno. Nella toponimica delle chiese di Mtskheta si incontrano molti nomi desunti dalla Terra santa (Getsemani, Tabor, Betlemme), dovuti al fatto che re Mirian e i suoi discendenti organizzarono la capitale a imitazione dei luoghi santi della Palestina, e in primo luogo di Gerusalemme. Centro della città è la maestosa cattedrale patriarcale Svetitskhoveli, che secondo la tradizione venne costruita sul luogo in cui era stata deposta la tunica del Signore e conserva al proprio interno una fedele ricostruzione dell’edicola del Santo Sepolcro, a testimoniare il legame inscindibile di ogni cristiano, di ogni chiesa, con il luogo benedetto della redenzione.
L’Osservatore Romano, 24-25 settembre 2016

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