Ero una, ero sola, ero piccola

da vanityfair.it

A volte l’orrore ti inganna con la dolcezza. Succede, per esempio, la prima volta che un ragazzo ti piace, e lui si avvicina e ti parla, e hai un nodo allo stomaco e ti senti felice, e accetti di uscirci. Siccome è gentile, e tu hai tanto bisogno di affetto, ti ci aggrappi. Pensi che quel viso che a te pare così dolce, quegli occhi così profondi, non potranno mai farti del male. Per Anna Maria Scarfò iniziò così. Calabrese di San Martino di Taurianova, un piccolo centro nella piana di Gioia Tauro. Il giorno del suo tredicesimo compleanno, un ventenne del paese l’avvicinò.

«Ero uscita per ordinare la torta, Domenico mi chiamò dalla macchina. Mi disse che voleva parlarmi da tanto tempo, risposi: “Ora non posso, ci vediamo domani”. Il giorno dopo mi chiese se potevamo frequentarci, voleva che fossi la sua ragazza, disse che ne avrebbe parlato ai miei genitori».

Per qualche giorno si incontrarono, lui era gentile. Ma la notte di Pasqua del 1999 andò a prenderla in chiesa, la fece salire in macchina e la portò in un casolare di campagna dove c’erano, ad aspettarli, altri quattro uomini. La sdraiarono su un tavolo, la violentarono a turno.

Fu l’inizio di un calvario finito tanti anni dopo con il suo nome e cognome cambiati, e una casa lontano, in una località segreta, dove Anna Maria non può rilasciare interviste né parlare con nessuno senza l’autorizzazione del Servizio centrale di protezione per i testimoni di giustizia.
Quella notte, quando gli orchi la riaccompagnarono a casa, Anna Maria non raccontò nulla alla sua mamma, per paura che si arrabbiasse con lei. «Nei giorni successivi, quando uscivo, Domenico e gli amici mi avvicinavano, insieme o da soli, e mi dicevano che se non fossi andata ancora con loro mi avrebbero picchiata, o se la sarebbero presa con mio padre». La minacciarono di raccontare a tutto il paese quello che aveva fatto. Così la costrinsero a stare anche con altri uomini. La tennero sotto scacco per tre anni.

Anche per Maddalena (il nome è di fantasia) è iniziata con le farfalle nello stomaco. Sempre calabrese: di Melito di Porto Salvo, quasi 12 mila abitanti, non lontano da Reggio Calabria, e a un’ora appena dal paese di Anna Maria. I genitori sono divorziati e «troppo impegnati con i loro compagni, con le loro cose».
Tre anni fa al mare conosce un ragazzo, Davide, fratello di un poliziotto, e inizia a frequentarlo. «Io avevo 13 anni, lui 19». Ha tanto bisogno di affetto, Maddalena. E ci si aggrappa. Davide in realtà non ha intenzioni serie, ma capisce quanto lei sia fragile, e se ne approfitta.
Alla fine dell’estate, con la scusa di averla sorpresa a scambiarsi messaggi con un suo amico, Davide la lascia, le dice che è tutto finito. Ma dopo qualche giorno ritorna.
«A me piaceva», racconta Maddalena ai carabinieri, «ero felice perché avevamo ricominciato a sentirci. Ma dopo qualche settimana la cosa si è capovolta contro di me: dovevo farmi perdonare per quei messaggi al suo amico. Io per perdonare non è che intendevo chissà che, ma poi lui mi ha detto che dovevo fare determinate cose con lui e con altri suoi amici. Gli ho detto ma che dici, ma perché lo devo fare, l’interesse non si basa su questo, il perdono nemmeno. Però avevo tredici anni, comunque lui mi piaceva, ho detto sì, faccio quello che vuoi».

Pochi giorni dopo, Maddalena è sola a casa, e Davide arriva proprio con il ragazzo dei messaggi, figlio di un maresciallo dei carabinieri. Fa leva sulla promessa ricevuta, la «convince» a stare con lui e anche con l’altro. «Io niente, muta, mi sono sentita usata, avrei voluto che se ne andassero in quel momento. Siccome avevo detto sì per farmi perdonare, il primo pensiero era questo: magari poi non succede, magari poi non torniamo insieme. E il secondo pensiero era che comunque io ero una, sola, piccola, loro erano due e avrebbero potuto fare lo stesso quello che volevano».
È l’inizio di un viaggio nell’orrore che la porterà a essere, per tre anni, schiava di otto balordi.

«La seconda volta, ci dovevamo vedere con Davide. Non sapevo che ci fosse un amico con lui. È venuto a prendermi con la macchina, quando sono salita e ho visto l’altro ho aperto la portiera per scendere, senonché questo suo amico passa dietro e mi chiude lo sportello e mi tiene per rimanere».
La terza volta la stuprano in tre, in una casa: «Non potevo parlare, non potevo fare niente. Quando si sono spostati sono subito corsa in bagno, mi sono messa a piangere».

E siccome, dopo quest’ultimo episodio, lei decide di non vedere più Davide («Mi dicevo: non è che è l’unico ragazzo sulla terra, non è che è così importante, non è che mi devo rovinare la vita per un ragazzo»), alle violenze subentrano intimidazioni e minacce.

«A dicembre, alla festa dei 17 anni di una mia amica, conosco un ragazzo. Usciamo insieme qualche volta», spiega ai carabinieri. Ma Davide non ha nessuna intenzione di lasciarla andare. A fine gennaio la convince ad accettare un incontro, la seduce. Qualche giorno dopo le dà un nuovo appuntamento, ma quando la ragazzina sale in macchina scopre che dentro c’è Giovanni, figlio di un boss della ’ndrangheta.

Lei si stupisce, ma non si spaventa. «Ho pensato: con lui mi conosco». Un tempo la sua mamma frequentava il boss e, quando era piccola, la portava proprio da Giovanni per addestrare un cane.
«Che ci fai qui?», chiede Maddalena. La risposta: «Adesso ti diverti pure con me». La minaccia: «Tu non vuoi che tuo padre venga a sapere tutto quello che hai fatto, vero?».
«Ha detto che io dovevo fare quello che mi dicevano altrimenti ci sarebbero state conseguenze, per me e per i miei genitori. Mi sono spaventata, anche perché lui aveva uno sguardo… non lo so, uno sguardo brutto. Davide gli diceva: “Vabbè, all’inizio è un po’ timida, poi però non ti preoccupare che ci sta”».

La violentano. Pestano a sangue il suo nuovo ragazzo, che la lascia. E Maddalena resta sola, schiava, consapevole che non potrà mai più avere una relazione normale. Da quel momento, secondo i magistrati, Giovanni con la sua voracità sessuale – verrà anche intercettato mentre organizza rapporti a quattro con certe trans di Reggio Calabria – assume il controllo del branco. E Maddalena non ha più scampo, poiché alle minacce di far del male ai suoi genitori si aggiungono quelle di diffondere foto e video imbarazzanti che la riguardano.

«Dopo febbraio sono tutti ricordi sfocati perché comunque succedeva spesso… Andavo già a scuola a Reggio, loro sapevano i giorni in cui uscivo a mezzogiorno, e venivano… Avevano detto che dovevo vedermi solo con loro due, ma poi arrivavo magari a casa di Giovanni e lì c’era qualche suo amico, e allora dovevo stare col suo amico, e questo è capitato tante volte con vari, vari ragazzi».

Fino a non poterne più. Fino a sentirsi troppo sporca. Fino a farsi tagli sul corpo. Fino a quando, complice un tema a scuola sul rapporto con i genitori, Maddalena trova la forza di scrivere il suo disagio. E quando la madre – che ha trovato a casa la brutta copia del tema e l’ha letta – le chiede spiegazioni, la ragazza crolla. Poi racconta tutto anche al padre.

Ma prima di arrivare ai carabinieri passano giorni, perché la mamma ha paura di quel che potrebbe pensare la gente, non vuole denunciare. E intanto le violenze continuano, e Maddalena esplode a scuola. Un’insegnante racconta ai carabinieri di essere corsa in bagno «per aiutare la mia collega a trattenere la ragazza che in crisi piangeva, gridava e sbatteva i polsi contro il muro». Il mese dopo, Maddalena entra per la prima volta in caserma. È il passo che porterà alla fine del calvario, agli arresti degli otto aguzzini. Ma anche all’inizio di un nuovo incubo.

Quando arrivo a Melito di Porto Salvo, il paese è ferito. Pochi giorni prima, l’associazione antimafia Libera ha organizzato una fiaccolata per Maddalena, ma giornali e Tv hanno scritto che non c’è andato quasi nessuno, hanno accusato sindaco, parroco e abitanti di essere omertosi, e di aver detto che «la ragazza se l’è cercata». Nel Municipio non c’è quasi nessuno: sono tutti a Reggio Calabria a incontrare Maria Elena Boschi, venuta apposta. Anche la chiesa è chiusa. Don Benvenuto Malara, il parroco accusato dai media di aver definito Maddalena una «prostituta», per il dispiacere ha avuto un malore. «Mi hanno messo in bocca frasi che non ho mai detto. Cerco di stare vicino alla ragazza, l’ho vista ieri per la terza volta».

Maddalena è ancora a Melito. «A casa del padre, che è un mio amico», mi dice il sindaco Giuseppe Meduri. «Sono andato a trovarli, ma lei non ha voluto incontrarmi. Questa storia ha creato tanto dolore al paese, coinvolge parecchie famiglie. Soffrono anche i genitori dei ragazzi coinvolti». Si riferisce in particolare al papà di uno degli arrestati, il maresciallo dei carabinieri, uno che aveva fatto la scorta a Falcone e Borsellino. «Ha sempre camminato a testa alta, ora la gente lo incontra e cambia strada. Mi ha detto che vuole chiedere scusa alla ragazza e all’Italia, e che il figlio deve pagare». «Prostituta». «Se l’è cercata». «Cosa lorda». Ne sa qualcosa Anna Maria Scarfò. «Ero solo una bambina e loro mi minacciavano», mi aveva detto qualche anno fa, nella sua casetta controllata a vista dagli uomini della scorta. «Ma quando mi hanno chiesto di portare la mia sorella più piccola, mi sono ribellata». Dopo la denuncia, tutto il paese le si schierò contro.

Le uccisero il cane, le macchine sfrecciavano davanti a casa sua e da dentro le urlavano «puttana».

«Non è stato facile raccontare tutto quello che mi stava accadendo e andare avanti, ma ce l’ho fatta grazie alle forze dell’ordine e al mio avvocato, Rosalba Sciarrone». Che, per proteggerla, la tenne tre anni a casa sua. «Io e lei, sole contro tutti», ricorda l’avvocato. «Qualche settimana fa la Corte di Cassazione ha condannato gli stupratori. Anna Maria è seguita da una psichiatra, la notte non dorme per gli incubi». Ma è più serena: «Dopo la denuncia, la mia vita è cambiata. Ho ritrovato anche qualcosa che avevo perso da anni, ho ritrovato il mio corpo, e quando l’ho ritrovato non sono riuscita ad accettarlo perché ormai lo sentivo rubato e sfruttato». Ha un messaggio per Maddalena: «Al paese chiedo di starle vicino. E a lei dico che non si deve sentire inutile ma forte perché, anche se si sono presi una parte di lei, è ancora giovane e può farcela. Io avevo tredici anni, ora ne ho trenta e mi sono ripresa la mia vita. Questo è un dolore con cui si può imparare a convivere».

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