Rileggendo le sue lettere. Alla scoperta di Caterina

L’Osservatore Romano
(Lucetta Scaraffia) Le uniche due lettere di Caterina scritte di suo pugno (nella raccolta che presentiamo, la 272 e la 226, le sole giunte fino a noi) sono semplicemente straordinarie. Ma la sua passione, la sua insofferenza, la sua lucidità e soprattutto la sua profondità spirituale pervadono anche le altre quasi quattrocento — ora pubblicate da Città Nuova a cura di Angelo Belloni, al quale si deve, oltre a una bella introduzione, anche la traduzione in italiano corrente — che vennero da lei dettate a segretari diversi.Caterina, che aveva imparato a fatica a leggere — anche se a un certo punto della sua breve vita era pure riuscita a scrivere per intervento miracoloso — in realtà ha sempre dettato le sue lettere, talvolta anche a scrivani diversi e a destinatari diversi contemporaneamente, rivelando una capacità di concentrazione e di lucidità che chi la osservava considerò superiori a ogni capacità umana.
La possibilità di leggere le lettere in una lingua a noi comprensibile, e quindi a entrare in contatto diretto con la grande santa, è veramente un grande dono del quale dobbiamo ringraziare l’editore. Di queste missive solo sedici sono indirizzate ai familiari, mentre le altre si rivolgono ai membri della sua famiglia spirituale da cui si trovava fisicamente lontana, poi a oltre un centinaio di singoli monaci, monache, religiosi, e a comunità monastiche, a sacerdoti. A tutti lei, semplice terziaria, rivolge caldi incoraggiamenti e duri moniti, ben consapevole di poter indicare loro la via della salvezza dell’anima. E da questi testi emerge lo specchio più vivo della sua personalità.
Come ben sappiamo, Caterina non si ferma davanti alla reverenza per le più alte gerarchie: segnala debolezze ed errori, denuncia il putridume della Chiesa anche a cardinali e Papi, con umiltà ma sempre con fermo coraggio. Nelle lettere ai Pontefici sa mettere impietosamente in luce i limiti del loro carattere, gli errori che compiono nel governo della Chiesa, pur senza che mai venga meno la sua obbedienza. Non mancano lettere di carattere politico, quasi aggressive: Caterina rivela tutta la sua insofferenza verso chi è stato preposto al bene pubblico e tradisce per interesse personale, per limitatezza mentale.
Senza dubbio le punte più alte della sua materna misericordia e della sua capacità di dolcezza si trovano nelle lettere ai carcerati, «carissimi figli in Cristo dolce Gesù», e soprattutto nella famosa lettera a frate Raimondo, «carissimo padre e negligente figlio» nella quale racconta l’esecuzione del perugino Tuldo da lei assistito.
Leggere queste lettere è un’avventura appassionante, sia spirituale che storica, anche perché si tratta di un’esperienza che permette di far luce su due luoghi comuni che si sono sviluppati intorno alla sua figura, opposti fra loro, ma entrambi oggi radicati: per i cattolici, l’idea che lei non avesse quasi personalità, ma fosse solo un ripetitore delle parole dettate da Dio, per i laici, che fosse una malata mentale.
Nella tradizione cattolica, per secoli, Caterina è stata considerata infatti solo come un microfono di Dio, scelta da lui proprio per la sua ignoranza per rampognare le gerarchie ecclesiastiche. Le sue accuse — che non risuonano estranee e lontane neppure oggi — aprono infatti un problema: come può una semplice donna, una ragazza ignorante figlia di un tintore, avere l’autorevolezza di rimproverare sacerdoti chiamati alle massime cariche ecclesiastiche? Questo paradosso è stato accettato solo a patto della sua inesistenza come identità specifica, come persona pensante.
La lettura delle lettere rivela subito che non è così: si capisce cioè che Caterina, illuminata nel profondo dalla sua ricerca spirituale, è capace di vedere dove gli altri non vedono, di capire quello che molti non vogliono capire. È quella giovane e coraggiosa fanciulla che rovescia i rapporti di potere, che realizza il Magnificat, non una figura sbiadita che parla solo per ripetere le voci che le arrivano dal cielo. Una fanciulla che ha il coraggio di affermare così spesso: «io voglio».
Paolo VI, dichiarandola dottore della Chiesa, ha già realizzato questo rovesciamento, restituendole il suo spessore intellettuale e spirituale.
Ma c’è anche un altro equivoco, molto più recente, da sfatare: quello che Caterina fosse solo un’anoressica, una malata mentale che aveva trasfigurato in senso religioso la sua patologia. Basta leggere le sue profonde parole, invece, per capire che dietro a esse c’è una coraggiosa e tenace ricerca spirituale, una strada personale percorsa senza timore né incertezze — «entrare nella cella della conoscenza di noi stessi» — fino a scoprire la presenza divina dentro di sé. E a comportarsi di conseguenza con grande consapevolezza, assumendosi tutta la responsabilità che questa scoperta le dava.
Le lettere di Caterina sono state definite da molti «un codice d’amore della cristianità», ma non sono solo quello: testimoniano l’avventura spirituale di una giovane donna, il suo coraggio, la sua lucidità nel guardare il mondo e la sua certezza che l’amore solo non basta, «la conoscenza è necessaria per la nostra salvezza, perché ogni virtù deriva dalla conoscenza».
L’Osservatore Romano, 23-24 settembre 2016

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