Fuggire dall’idea che gli attentati siano semplici “cose che capitano”

(a cura Redazione “Il sismografo”)
(Damiano Serpi) “Stuff happens, it’s about people resiliece” (Cose che capitano, si tratta della resilienza di un popolo). Così un esperto israeliano ha spiegato qualche ora fa il comportamento del popolo newyorchese dinnanzi alle bombe disseminate in città da un attentatore, talmente privo di scrupoli, da non aver neanche scelto con accuratezza i suoi obiettivi. Poche parole ma dicono tantissimo. C’è stato chi ha pianto, chi si è spaventato, chi è scappato o si è chiuso in casa, chi ha continuato a divertirsi come se nulla fosse successo, ma la stragrande maggioranza dei cittadini di New York e del New Jersey sembra aver reagito con resilienza, come se stessero affrontando una “semplice” cosa che capita ogni giorno.In questo, ha sempre detto l’esperto con un pizzico di orgoglio nazionale, gli statunitensi sembrano aver ben imparato il modo di reagire “resiliente” degli israeliani.
La resilienza, ossia la capacità di un individuo, di un popolo o di una comunità di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà, è qualcosa di cui abbiamo tutti bisogno. Se ne sente la necessità dopo un devastante terremoto, una violenta alluvione, un grave incidente o una lunga guerra. La vita, dono di Dio, deve continuare e l’uomo è stato dotato della capacità di correggere i suoi errori e di trovare la forza per andare avanti riacquistando fiducia e determinazione sulla sua vita. Guai se non fosse così.
Ma qua ciò che deve far riflettere non è solo e soltanto il concetto di resilienza associato ad un evento terroristico, ma la volontà, quasi fosse un obbligo scoraggiante, di considerare l’evento terroristico come una calamità, un evento naturale, una forza terza che l’uomo può solo subire e mitigare ma non può comunque evitare. Insomma credere ed essere convinti che gli attentati, come i terremoti, succederanno non si sa bene dove o quando ma succederanno sempre. Su questo occorre fermarsi e meditare. Dobbiamo davvero arrenderci a questo ? Dobbiamo davvero accettare queste azioni umane come se fossero “semplici” cose che capitano ? Dobbiamo reimpostare la nostra vita accettando che nostri fratelli possano decidere di farsi e farci saltare in aria con bombe chiodate disseminate ai lati delle strade come se ci trovassimo di fronte ad un terremoto o all’eruzione di un vulcano ?
Certo, questa società e questo complicatissimo mondo che viviamo, ci pongono sempre più davanti a situazioni tragiche e drammatiche. Certo gli attentati, dal 2001 in poi, sono entrati prepotentemente nella vita di ognuno di noi tanto da riempire quasi ogni giorno le prime pagine dei giornali e le edizioni dei TG nonché da farci modificare le nostre abitudini più quotidiane. Certo la minaccia di un terrorismo diffuso e cruento, animato da un odio primitivo e viscerale, dilaga senza sosta in mezzo a noi e sconvolge la nostra vita e, soprattutto, quella dei nostri figli. Ma possiamo davvero permetterci il lusso di arrenderci a questi eventi come se fossero degli accadimenti comunque inevitabili, imprevedibili e in definitiva naturali ? In altre parole, possiamo davvero abituarci a questi eventi al punto di arrenderci all’evidenza che debbano succedere e conviverci come se debbano far parte della nostra vita quotidiana ? Non è un caso che l’affermazione fatta sia arrivata proprio da un esperto israeliano di questioni sociali e militari. Lì, nella Terra che fu Santa sin dai tempi di Abramo e che è stata teatro della nascita, della vita, della passione e della morte di Gesù il Cristo nonché luogo primario della testimonianza reale della Misericordia del Padre, la violenza dell’uomo continua a mietere vittime ogni giorno. E’ sicuramente difficile per noi capire quale pena debbano sopportare ogni giorno gli israeliani e i palestinesi di buona volontà dinnanzi a continue, reiterate e reciproche violenze. Non c’è giorno in Terra Santa che non avvenga un attentato e che qualcuno non perda la vita per mano violenta di un proprio simile.
Ma tutto questo può legittimare la convinzione che si debba arrivare a ritenere gli attentati “cose che capitano”?. È davvero possibile definire “cose che capitano” il ripetersi quotidiano di attentati che vedono perfino protagonisti bambini di 13 o 14 anni disposti a farsi uccidere nel tentare di accoltellare soldati armati sino ai denti ? Non c’è il rischio di dematerializzare il valore della stessa vita umana, di arrendersi alla violenza, di abbandonare ogni speranza, di considerare l’uomo alla stregua di una entità automa che non è in grado di soppesare le proprie azioni ma solo di subirne le conseguenze ? Non è forse un modo, anche molto semplice, per delegare il problema agli altri, magari allo Stato che ci deve proteggere e alla Comunità Internazionale che non fa nulla per evitare tali accadimenti ? Tutte queste non sono domande inutili.
Questa società globalizzata ci spinge sempre più a scelte egoistiche e finalizzate a scopi che poco hanno a che fare con l’essere “uomini”. Così come ci si difende da un terremoto costruendo le nostre case in modo antisismico e erigendo costruzioni in cemento armato sempre più forti e resistenti, oggi si crede in modo continuamente più diffuso che il terrorismo, che minaccia le nostre vite a casa nostra, si possa arginare costruendo muri o recinti dove sentirsi più al sicuro. Una nuova forma di isolazionismo che mira a rinsaldare le nostre, spesso effimere e limitate, sicurezze personali. L’essenziale, in quest’ottica, è essere noi stessi al sicuro, poi poco importa se i nostri vicini di casa non lo sono affatto, problema loro se non sanno difendersi. Così come si costruisce una diga per arginare l’esondazione di un fiume o di un torrente, nello stesso modo si crede che costruire sbarramenti e alzare barricate protettive possa salvarci la vita dagli attentati e limitarne ogni effetto nefasto.
Ma i terremoti, le alluvioni, i nubifragi sono cosa diversa dagli attentati, dalle bombe, dalle guerre. La differenza non sta nell’onda distruttiva o nell’entità dei danni, ma nell’odio che è alla base dei fenomeni che vogliamo forzatamente equiparare. La natura fa il suo corso, a volte si ribella con inaudita violenza alle scelte poco intelligenti fatte dall’uomo, ma non odia. Papa Francesco ci ha detto qualche tempo fa che “Dio perdona sempre, le persone umane perdonano alcune volte, ma il creato non perdona mai: se tu non lo custodisci, lui ti distruggerà”. Ma la natura, il creato, non odia, anzi ci dona i suoi frutti sempre gratuitamente. I fiumi non esondano perché l’acqua odia l’uomo e i terremoti non avvengono perché la terra detesta il genere umano. Gli attentati, le bombe, i conflitti armati, le guerre sono tutte motivate dall’odio, dall’egoismo, dal cuore indurito per via del denaro, degli interessi di parte o del potere. Ecco perché non solo è difficile ma, forse, è anche deleterio equiparare gli attentati e le bombe a semplici “cose che capitano”. Se è vero che dobbiamo essere resilienti davanti agli effetti e alle conseguenze di un attentato così come a quelli di una calamità, è altresì vero che non dobbiamo assolutamente esserlo davanti alle motivazioni, all’idea, all’uso strumentale degli attentati. Possiamo e dobbiamo accettare l’idea che bisogna sempre rialzarsi dagli effetti di un attentato ma non dobbiamo mai accettare l’idea che assistere ad un attentato sia la normalità, una normalità dei nostri tempi cui doversi abituare con rassegnazione.
Davanti al rischio di un devastante sisma la prima cosa che ognuno di noi deve fare è mettere in sicurezza sé stesso e la propria famiglia chiedendosi se la casa dove vive, l’ufficio dove lavora, la scuola dove manda i propri figli può reggere le scosse di un terremoto. Non è un atteggiamento egoistico ma sapientemente ponderato. Se tutti lo facessero i danni sarebbero sempre meno. Innanzi ad un attentato però questo ragionamento non può bastare. Non si può usare lo stesso metro di giudizio e di paragone. In presenza di un rischio di attentati dobbiamo chiederci altro. Non basta chiederci solo se io sono al sicuro e se lo sono i miei cari. Dobbiamo tutti porci la domanda “perché tanto odio” e riflettere se costruire muri in cemento armato, passerelle in vetro blindato o simili accorgimenti ci protegga davvero o siano solo modi per far finta di affrontare il problema, palliativi per cercare di andare avanti senza mettere in discussione ciò che veramente deve essere affrontato. Ci dobbiamo chiedere, sempre e senza stancarci, del perché altri uomini arrivino a compiere tali gesti e rendersi così autori di delitti e infamie terribili. Dobbiamo interrogarci sui motivi di tanto odio e non limitarci poi soltanto a scegliere diversi e individualistici stili di vita o di comportamento per evitare solo che gli effetti degli attentati ci investano in prima persona. Occorre sempre stupirsi, restare attoniti e sconcertati davanti ad un attentato e non accettarlo come qualcosa che non possiamo comunque evitare, come qualcosa che semplicemente “accade”. In sostanza dobbiamo imparare a dare il valore di semplici “cose che capitano” a ciò che lo sono realmente e cercare di non sfuggire ai nostri doveri di uomini artefici, sempre e comunque, di ciò che decidono di fare. E’ l’uomo che odia non la natura o il creato.

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