Da Assisi la chiamata del Papa alla pace contro la “guerra mondiale a pezzi”

Francesco. In nove lettere il programma di un pontificato. Si era capito già dalla sera di quel 13 marzo 2013. L’agenda del Poverello è diventata il programma di governo del primo Papa che ha preso il suo nome: poveri, profughi, dialogo ecumenico e interreligioso.

In tre anni e mezzo sul soglio di Pietro, Francesco è tornato ad Assisi ben tre volte e in tre occasioni altamente significative: per affidare, insieme al C9, la riforma della Curia al Santo assisiate; per coronare il Giubileo straordinario della Misericordia in quella Porziuncola dove, ancor prima di San Damiano, iniziò la missione del frate di “riparare la Chiesa”; per invocare il dono della pace in questa “terza guerra mondiale a pezzi” in atto già da tempo.

La città serafica diventa così la capitale spirituale del pontificato bergogliano segnato da un forte anelito di pace, in un tempo in cui il nome di Dio viene usato per giustificare guerre, violenze, torture, abusi di ogni genere, traffico di esseri umani, lavoro schiavo e terrorismo.

Non è casuale che il Pontefice, nonostante abbia rinunciato ai viaggi in Italia durante l’Anno Santo, abbia voluto partecipare a questo incontro promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, sua “alleata” nella missione umanitaria a favore dei profughi, a trent’anni da quello storico meeting mondiale convocato da Wojtyla che riunì ad Assisi credenti di ogni confessione religiosa. Il muro di Berlino sarebbe caduto tre anni più tardi, e il comunismo avrebbe chiuso definitivamente la sua pagina mentre sul Trono di Pietro sedeva il primo Papa slavo della storia. Da allora prese il via un lungo pellegrinaggio: Bari, Malta, Bucarest, Cracovia, Tirana; tutte tappe che hanno rappresentato un antidoto contro quel male del mondo che sembrava emergere sempre di più, sempre peggio.

Non si può dimenticare l’incontro interreligioso del 24 gennaio 2002, pochi mesi dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre. Wojtyla, sfiancato dal morbo di Parkinson, sentì il bisogno di rinnovare l’appuntamento di Assisi perché lo “Spirito” di pace soffiasse su un mondo in procinto di avviare una guerra sanguinosa e senza confini. Dinanzi alla Basilica di San Francesco, alle pendici del Monte Subasio, il santo Papa polacco lanciò un appello perché non venisse strumentalizzato in modo offensivo il nome di Dio, e le religioni fossero “un fatto di solidarietà e di pace”.

Parole che riecheggeranno domani nel discorso che Papa Francesco pronuncerà sullo stesso palco, nello stesso luogo, stringendo idealmente le mani di 450 leader buddisti, cristiani, giainisti, indù, shintoisti, sikh, ebraici e musulmani. Con loro il Successore di Pietro firmerà un appello di pace e accenderà due candelabri, simbolo della luce della speranza in un mondo migliore che mai dovrebbe spegnersi.

Nel pomeriggio invece si terrà un momento di preghiera in vari luoghi della città come il Sacro Convento, il Monastero di Sant’Andrea, il Palazzo Monte Frumentario. Il Papa pregherà nella Basilica inferiore, quella che, tra gli affreschi di Giotto, custodisce le spoglie del Poverello.

Lì oggi si è radunata buona parte dei 12mila pellegrini che si attendono in totale per domani ad Assisi. Provengono da Oriente e Occidente, molti di loro hanno preso preso parte ai 29 panel organizzati da Sant’Egidio e dai francescani, durante i quali illustri ospiti hanno dibattuto su temi come migrazioni, ambiente, lotta alla fame e alla povertà, giustizia sociale, nuove tecnologie, terrorismo.

Tra questi anche il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, che ha presenziato alla cerimonia di apertura nel Teatro Lyrik insieme al presidente Mattarella. Questa mattina il primate ortodosso ha ricevuto la Laurea “honoris causa” in Relazioni Internazionali, presso l’Università per Stranieri di Perugia; nel pomeriggio ha preso parte ad un panel che voleva celebrare i suoi 25 anni di ministero patriarcale.

“25 anni al servizio dei cristiani e del mondo” si intitolava l’evento; per Bartolomeo, invece, si è trattato solo di “una goccia d’acqua in un oceano di dolore umano e di sofferenza globale”. Perché, ha sottolineato, “il vescovo – sia egli un vescovo assistente, un metropolita, un arcivescovo, un patriarca, un patriarca ecumenico, o addirittura un Papa! – è anche, prima di tutto, un servitore della chiesa non solo un leader”.

Infatti, ha proseguito Bartolomeo, “è solo nella misura in cui il vescovo è – al di là di ogni altra cosa – un vero e proprio servo, che può anche essere un leader ispiratore; è nella misura in cui rimane veramente un figlio devoto di Dio – senza fingere o pretendere di rivendicare l’autorità e il potere – che è anche in grado di essere un padre misericordioso della Chiesa. Siamo – tutti noi, non importa quale sia la nostra posizione – chiamati prima ad essere figli di Dio, e non governanti delle persone”.

Quasi un passaggio della Evangelii Gaudium di Papa Francesco. Anche questo un segnale di unità di missione e di visione ecclesiale.

zenit.org

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