La mafia vince non soltanto nel silenzio delle sue vittime, ma nell’inerzia di chi sa e tace

Si può ancora parlare di mafia senza suscitare noia, persino fastidio, voglia di fuga, e comunque sensazione di aver già letto e visto tutto. Il cinema, la tv, la letteratura, la saggistica, le cerimonie commemorative, e, ahinoi, ancora i morti, hanno come saturato il mercato delle idee e della passione civile. Eppure la mafia esiste, e a dispetto di talune analisi ingiustificatamente ottimistiche, non arretra, ma, appunto per stanchezza, si è decisamente abbassata la soglia di attenzione, e, ormai, la mafia viene accettata come si accetta il cambio climatico: deprecandolo, ma nella sostanza considerandolo inevitabile, non foss’altro per comodità.

Del resto, opporsi alla mafia, e uso il termine in modo generico, riferendomi alle diverse forme di grande crimine organizzato, significa impegnarsi in prima persona, e anche quando non vi sia un margine di rischio, l’impegno richiede coraggio. E implica disponibilità all’azione, a spendere il proprio tempo, a impiegare energie. La lotta alla mafia, soprattutto, postula attenzione e dedizione: attenzione agli altri e dedizione alla causa comune, ossia la salvezza dal cancro mafioso. Il quale, come ormai sappiamo, sta modificando le proprie strategie, anche se non è stata abbandonata, e probabilmente mai lo sarà, la via del “pizzo”, ossia la tangente imposta ed estorta a chiunque abbia attività imprenditoriali.

Oggi tuttavia, pur non avendo rinunciato ai classici sistemi, la mafia lucra sul traffico dei migranti, sulla loro “accoglienza”, sullo smaltimento dei rifiuti, e in particolare su quello illegale di rifiuti tossici di varia natura. Di questo tratta un esile libro di una esordiente nella letteratura, Barbara Giangravè, trentatreenne siciliana che ha alle sue spalle una precoce esperienza di lotta, nel comitato “Addiopizzo”, da cui si è poi distaccata, prendendo una strada personale, che senza rinunciare alla lotta, ha scelto la scrittura creativa, non soltanto per raccontare la verità sugli “intombamenti” di rifiuti industriali, scorie tossiche, ma anche, e in realtà, soprattutto, per dare un incitamento ai suoi corregionali, e al Paese tutto, giacché, come è noto, la rete mafiosa oggi è altrettanto potente in Emilia, in Veneto e in Lombardia che in Sicilia o in Puglia o Campania.

Il libro si intitola Inerti (edizioni Autodafè, Milano, 198 pp., € 15,00), e allude precisamente ai materiali “inerti”, scarti dell’edilizia, ma richiama soprattutto l’inerzia di chi è abituato a subire i soprusi dei potenti, e a tacere, anche quando quei soprusi producono morte. Come nella storia che Gioia, la protagonista (vagamente autobiografica) ricostruisce in tempo reale, per così dire, accompagnando il lettore in un avvincente thriller, ambientato ad Acremonte, un paesotto inventato nel cuore della Sicilia, dove i tumori e le leucemie hanno improvvisamente conosciuto un’impennata che l’autorità finge di ignorare, succube dei poteri forti, ossia di quel grumo di interessi che le cosche garantiscono, al di fuori di ogni legalità. Barbara-Gioia, a partire da vicende luttuose che hanno colpito la sua famiglia, si pone a indagare, riuscendo, con paziente lavoro, e con notevole spirito d’avventura, a ricostruire una trama che vede coinvolti, accanto a imprenditori disonesti e mafiosi che fanno “il lavoro sporco”, autorità politiche e giudiziarie, ma soprattutto la complicità passiva e talora attiva di quasi una intera popolazione. Scritte in uno stile lineare e asciutto, senza fronzoli né pretese letterarie, ma forse proprio per tale ragione efficace, queste 250 pagine sono un prezioso contributo alla lotta.

La vicenda è appunto quella di una ragazza che licenziata dal suo datore di lavoro nel Continente, ritorna al suo paesello, e lentamente scoperchia le pentole, e arriva, passo dopo passo, a capire prima che a conoscere con dati concreti, la verità. Industriali disonesti hanno inquinato con gli intombamenti la terra e le acque, grazie alla protezione mafiosa, nel silenzio di chi doveva vigilare, gli stessi che, in passato, avevano provveduto a far morire in provvidenziale incidente i genitori della ragazza che avevano cominciato a capire, e che ora sono pronti a liquidare senza tanti complimenti questa rompiscatole che non vuole fermarsi se non davanti alla verità.

Il libro è un messaggio politico: Gioia non è l’eroina solitaria, ma la si potrebbe definire un’avanguardia, che non si accontenta di ottenere “il risultato” come un qualsiasi detective, bensì mira a un esito politico, a un risultato da raggiungere collettivamente, aiutando i dormienti a ridestarsi, i timorosi a prendere coraggio, coloro che fino al giorno prima avevano voltato la testa dall’altra parte a guardare in faccia la realtà. E a rendersi protagonisti essi stessi del processo di liberazione dal giogo mafioso. Perché questa è la morale di questo piccolo libro di una “piccola donna”: non soltanto non piegare la testa, ma non aspettare che le proprie catene vengano spezzate da altri, anche se dall’esterno può giungere lo stimolo alla presa di coscienza. “Sapevamo tutto ma non abbiamo mosso un dito”, ammette Maria, la cugina di Gioia, che ha sempre vissuto nel paese. “Poi sei arrivata tu”… Gioia, ci fa capire il suo alter ego Barbara, è stata semplicemente la levatrice della verità, l’ispiratrice di un processo che potrà giungere a compimento solo se una intera comunità assume consapevolezza e si dispone alla lotta. Il finale del libro è classicamente aperto, proprio a indicare che il suo compito Gioia l’ha svolto, e ora tocca agli altri agire. La mafia vince non soltanto nel silenzio delle sue vittime, ma nell’inerzia di chi sa e tace.

MicroMega

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