Ruberie in Vaticano: a processo chi denuncia, non i corrotti

ROMA – La giustizia Vaticana, evidentemente ispirata da quella divina, procede a passo spedito e senza indugio alcuno verso l’accertamento penale su quanto svelato dall’inchiesta di Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi. Imputati nel procedimento che si è aperto all’interno delle mura Leonine, oltre ai due giornalisti figurano anche la esperta di pubbliche relazioni Francesca Immacolata Chaouqui, monsignor Vallejo Balda ed un suo collaboratore, Nicola Maio. L’ansia giustizialista del Vaticano però si scontra proprio con quei principi di giustizia che la Chiesa afferma di voler perseguire. Diversi gli aspetti che suscitano perplessità dal punto di vista giuridico, sia sotto il profilo delle garanzie difensive che della concreta applicabilità ai giornalisti Nuzzi e Fittipaldi delle norme del codice penale vaticano che si assumono violate da questi. Ed infatti, mentre non paiono esservi dubbi circa la giurisdizione competente per reati commessi da dipendenti della Curia vaticana, come lo sono (o lo erano) gli altri tre, per quanto concerne la posizione processuale degli autori dell’inchiesta sulle malefatte vaticane, esiste qualche problema ed anche di non poco conto. Le ipotesi di reato di cui sono imputati infatti, sono poste a tutela della Sicurezza dello Stato Vaticano ed è in questa ottica che deve leggersi l’incriminazione di cui devono rispondere Nuzzi e Fittipaldi. L’articolo 10 della Legge del 2013 (recante modifiche al codice penale e di procedura penale) ha introdotto la norma di cui all’art. 116 bis che cosi recita “Chiunque si procura illegittimamente o rivela notizie o documenti di cui è vietata la divulgazione, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni o con la multa da euro mille ad euro cinquemila. Se la condotta ha avuto ad oggetto notizie o documenti concernenti gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede o dello Stato, si applica la pena della reclusione da quattro a otto anni” ed è il reato di cui sono chiamati a rispondere i giornalisti. Quel “chiunque” porterebbe a pensare che la norma si applichi anche a loro. Tuttavia, il “Motu Proprio” di Francesco che accompagna la riforma penale , chiarisce che le norme si applicano ai pubblici ufficiali della Curia Vaticana. Potrebbe a questo punto opporsi, data la collocazione sistematica dell’articolo 10 citato nel codice penale (dei delitti contro la sicurezza dello Stato) che la norma miri a salvaguardare la integrità e la sicurezza dello Stato Vaticano. Ma francamente riesce difficile associare i lavori pagati con i fondi dell’Obolo di San Pietro per il restauro dell’attico di Bertone o la malversazione dei beni delle fondazioni Vaticane nientemeno che alla messa in pericolo della integrità e della sicurezza dello Stato Vaticano. Dunque sussistono fondati dubbi sulla pretesa di giurisdizione che ha il Vaticano nel voler processare i giornalisti. Inoltre, come si diceva, il processo non offre le garanzie minime di difesa che sarebbe lecito aspettarsi in uno Stato inserito in un contesto giuridico europeo, come non ha mancato di evidenziare il rappresentante dell’OSCE che ha denunciato le norme liberticide vaticane in materia di libertà di informazione che mal si collocano nel sistema liberaldemocratico della Europa occidentale cui pure, seppure solo geograficamente, è collocata la Santa Sede. La impossibilità di nominare un difensore di fiducia che non sia uno iscritto negli albi rotali, la denunciata secretazione degli atti del fascicolo di indagine, i tempi imposti dal diktat papale, dettati dall’esigenza di non trascinare lo scandalo oltre l’apertura dell’anno giubilare, sono elementi che fanno ritenere che il processo non garantisca il diritto di difesa. Del resto parliamo di un processo che invece che perseguire le malefatte denunciate, persegue chi le ha denunciate. E questo ha già del paradossale.

 

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