La laicità e l’Isis

I sei eccidi pianificati dall’ISIS a Parigi hanno suscitato reazioni forti e diffuse, del tutto comprensibili nel campo delle emozioni umane per un’atrocità che contrasta a fondo il nostro modo di essere. Dubito però che reazioni del genere possano essere esaustive e soprattutto che colgano il senso profondo degli eccidi.

Non mi riferisco ovviamente agli urgenti provvedimenti di protezione civile che i governanti hanno adottato subito. E neppure alla natura di questi provvedimenti, coerenti con i valori della libera convivenza e non estranei ai nostri stili di vita improntati all’apertura e all’accoglienza nel rigoroso rispetto delle regole che ci diamo. Mi riferisco al fatto che i sei eccidi non hanno provato solo la determinazione dell’ISIS di fondare il nuovo stato sull’integralismo della fede islamica  affermato con la violenza unilaterale a danno dei civili infedeli tramite l’arma della morte programmata e gloriosa  dei militanti (contro questa determinazione c’è la decisa replica militare, nonostante in Italia si finga di esservi estranei). I sei eccidi costituiscono un meditato disegno politico culturale a noi rivolto e dovrebbero indurre l’occidente e i musulmani non fondamentalisti ad abbandonare un abito mentale indossato per decenni nella vita pubblica. L’abito della convinzione che migliorare la convivenza dipenda dal riconoscersi nei principi dell’autorità comunitaria che predica l’uguaglianza indistinta nelle relazioni interindividuali  e che, al fine di governare, indica il mito della pace quale strumento autogenerante e di per sé risolutivo.

La cosa è divenuta impellente poiché la capacità espansiva dell’ISIS si è estesa oltre l’ambito d’origine ed è divenuta globale. Il suo propellente è stato fin dall’inizio l’uso della religione non come fatto spirituale ma come cemento di potere a presa rapida che esaspera l’approccio in termini di fondamentalismo. Solo che all’inizio le opinioni pubbliche occidentali lo ritenevano un fenomeno limitato all’Asia Minore da lasciar perdere.  Ben presto, tuttavia, quella capacità è stata moltiplicata dal sopravvenire di due fattori esterni. Uno è stato il grande rafforzamento delle comunicazioni concernenti il modo di far vedere le notizie e di intrattenere rapporti interpersonali via internet  (questi ultimi praticamente inesistenti 25 anni fa), il che ha reso esponenziale l’impatto sui cittadini del mondo di ciò che accade. L’altro è stata la mentalità con cui l’occidente si è mosso nei teatri delle agitazioni musulmane negli anni recenti (Iraq, Libia, Siria); una mentalità, in scia coloniale, convinta che quegli interventi servissero a riportare l’ordine locale senza influire sulla convivenza interna dei paesi che li fanno (salvo spostamenti sullo scacchiere dei rapporti fra le nazioni occidentali) ed incapace di considerare che ormai i sommovimenti indotti in un dato teatro possono produrre influenze dovunque.

Con il concorso di tali due fattori, l’uso del fondamentalismo religioso come cemento di potere a presa rapida, è divenuto una “bandiera nera” capace di attivare, sia nei luoghi originari sia a grande distanza, impetuose mobilitazioni nel segno dell’utopia del riscattarsi da condizioni di vita insoddisfacenti, un’utopia di carattere fondamentalista. La bandiera nera dell’ISIS è molto pericolosa sotto due aspetti intersecati. Fa regredire il confronto per governare la convivenza a mero scontro di potere tra nemici mortali e usa come unico tema discriminante una concezione religiosa totalitaria in nome del proprio Dio (“guerra santa contro laicità e democrazia” grida sul suo telefonino il terrorista capo dei sei eccidi). Tutto ciò inocula il virus della regressione civile, sia rifiutando la politica delle idee e dei progetti dei cittadini, sia rifiutando la separazione tra credo religioso e regole di convivenza, sia, nel complesso, negando ogni valore a ciò che la cultura del nostro mondo va producendo con fatica da secoli per migliorare le condizioni della società, e cioè il riconoscere e il valorizzare la diversità individuale dei cittadini e il loro scegliere tramite il conflitto democratico.

Essendo questa la situazione,  risulta chiaro che la risposta militare, anche se fosse ottimale sotto il profilo tecnico, serve a spengere il focolaio dell’infezione e a scompaginarne le reti territoriali odierne, ma non cura il virus della regressione civile già diffuso dalla bandiera nera, che, attraverso una fitta rete di predicatori della disinformazione, continuerà a vivere di vita propria nel resto del mondo per un tempo non breve. Questa è l’insidia più velenosa e persistente portata dall’ISIS. E una simile insidia non può essere sventata né dalle armi né indossando il solito abito mentale, della comunità, dell’uguaglianza indistinta, del mito risolutivo della pace, della sicurezza non scalfibile e delle solari certezze.

Per dismettere un simile abito, il punto di riferimento naturale è la cultura laica. Proprio perché, fondandosi sulla diversità individuale e il suo spirito critico,  è fisiologicamente predisposta a combattere le radici che alimentano i principi comunitari del fondamentalismo religioso. Infatti la diversità individuale e lo spirito critico sono l’unico antidoto specifico contro ogni forma di oppressione dei cittadini. Preservare la diversità individuale, peraltro, non è enunciare un semplice concetto ma implica  seguirne i criteri per organizzare la convivenza di diversamente credenti e non credenti. Nel clima politico culturale italiano (e ancor più dopo i sei eccidi di Parigi) ciò significa che i laici devono impegnarsi a fondo per diffondere la consapevolezza di un dato. Siccome la convivenza civile riguarda tutti i diversi individui in ogni ambito, è un’illusione contraddittoria far credere di poterla fondare e migliorare – oggi anche al fine di eliminare il virus della bandiera nera – con il sistema di avvolgere i cittadini nel conformismo autoritario della comunità e dei concetti irrispettosi del singolo (mondialismo, clericalismo, unità come valore, antiindividualismo, classismo, negazione spirito critico, disattenzione ai fatti, immobilismo burocratico, promesse utopiche, sminuito  rispetto delle regole pubbliche) che convergono nel contraddire la diversità dei cittadini.

Pratica questa contraddizione chi sostiene che il diffondersi del virus ISIS non va attribuito alla bandiera nera  bensì alle condizioni arretrate nelle periferie della  nostra società. Tali condizioni sono frutto di un insufficiente funzionamento dei meccanismi sociali, causato, come prova l’esperienza storica, da un’interrelazione produttiva ancora inadeguata tra i diversi cittadini. Invece di proporsi di migliorarla (il che oggi serve anche a depotenziare il contagio della bandiera nera), non a caso il virus dell’ISIS vuole comprimerla e sostituirla con il fondamentalismo. Ma chi attribuisce la diffusione dell’ISIS alla nostra  arretratezza, pretenderebbe di progredire regredendo al conformismo comunitario già fallito alla prova. Un conformismo che ha un substrato al fondo analogo a quello estremizzato dalla bandiera nera, quando antepone teoriche soluzioni magiche alla libertà di ognuno, quando concepisce solo o l‘integrare totalizzante oppure il costruire ghetti in cui i vari credi fissano la legge; e ancora quando misura il confronto politico non sui provvedimenti concreti e sul giudicarne i risultati, bensì sulle promesse e speranze buoniste fatte da leader o gruppi di potere amicali, che ingannano con  il miraggio  di una palingenesi risolutiva, terrena o meno.

Un grave errore  del genere lo compie chi usa l’accogliere il migrante come bandiera mistica a prescindere dalle effettive condizioni in cui ciò avviene. L’accoglienza come valore senza regole è l’opposto della società aperta, fatta di regole. Equivale ad eludere le responsabili cautele normalmente  necessarie per convivere nel rispetto dell’altro: che vanno dal controllare l’identità di chi migra verso l’UE e del perché vuol farlo (dato che la libertà di circolazione è un principio interno, non mondialista) così da ridurre al minimo il rischio di farsi penetrare dal virus, fino al tener conto delle oggettive possibilità logistiche fisiche del territorio d’ingresso, così da evitare di avere residenti con una qualità della vita significativamente inferiore al livello civile interno, e perciò potenziale fonte  di forti frizioni civili.

Su tutti questi temi, il mondo laico deve alzare la propria voce soprattutto oggi nell’Anno Santo. Per ricordare che, anche qui,  non è l’istituzione religiosa (con la sua dimensione di speranza) ma l’istituzione laica (con il suo basarsi sulla sovranità del cittadino) a rendere possibile lo svolgersi ordinato dell’Anno Santo in virtù della regola civile della libertà di culto che da la sicurezza possibile (né cambia i fatti Francesco quando apre le porte delle chiese ai musulmani, che fa proselitismo mettendo tutti sotto l’ala ecclesiale).  Ed inoltre per sottolineare come sia in nome della libertà che non si arrende, che vengono affrontati con coraggio responsabile i maggiori rischi oggettivamente derivanti dalla scelta religiosa di confermare l’Anno Santo (coerente con il suo principio del martirio), data l’impossibilità di escludere che la lotta mortale dell’ISIS contro la diversità trovi nel rito giubilare un’occasione per inoculare paura.

Al di là delle propensioni di ognuno di noi, per vivere insieme è decisivo consentire sempre agli altri diversi di esprimere sé stessi. Dunque, perseguire la separazione Stato religioni è indispensabile per garantire la sovranità dei cittadini e così erodere privilegi e illusioni virali che la insidiano senza sosta.

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