Guccini punto e a capo

Incontri. (L’ex) cantautore presenta la sua raccolta definitiva e parla di Bologna nei ’60 dove «Non si dormiva mai, si poteva trovare sempre gente interessante»

«In una serata di baldoria si poteva arrivare a spendere fino a 1000 lire a testa». È strapieno di slittamenti temporali il monologo con il quale Francesco Guccini introduce le sue ultime fatiche, discografiche e letterarie, complice forse il luogo: l’Osteria del Moretto, sopravvissuta alla Bologna «cambiata d’oggi», peraltro raccontata nella Canzone delle osterie di fuori porta, e dove da giovane oltre a far bisboccia il nostro cominciò a suonare. «Ho scritto diverse canzoni su questi luoghi, sui personaggi che le frequentavano e sulle ragazze». «Bologna negli anni ’60 non dormiva mai; mi piaceva Milano, ma Bologna era unica potevi incontrare a qualsiasi ora gente interessante. Dai musicisti che finivano di suonare ai camerieri che smontavano di servire».

Guccini nel suo girovagare tra ricordi personali e un tentativo di sistemare nella memoria un periodo irripetibile ancora il suo parlare in modo inedito, inusuale per un artista, al cofanetto Universal in multiedizione da 4 a 10 cd con un paio di inediti e riscoperte live e perdute, da solo o in diverse formazioni, Se io avessi previsto tutto questo. Gli artisti, la strada, le canzoni, e i racconti raccolti da Mondadori in Un matrimonio, un funerale, per non parlar del gatto. Così facendo trasforma il commercio in poesia, ma anche la fine di una carriera e l’inizio, meglio «la fresca continuazione di una altra». Da cantautore a scrittore il passo non è stato indolore, ma logico: «Ho sempre scritto. Uno dei racconti del libro, L’americano ora rimaneggiato risale al 1960. Allora scrivevo per la Gazzetta di Modena, due anni ci sono stato, ero precario, già cantavo e poi la leva mi ha fatto lasciare il giornale. Quattro, cinque racconti li avevo già pubblicati per una casa editrice pistoiese. Mondadori mi ha chiesto di scriverne altri».

Sono racconti dell’Appennino, che sembrano collocarsi tra le cosmogonie di Raffaele Crovi e i visionari stati di coscienza di Lindo Ferretti: storie minime, di vita vera, prima persone, poi «personaggi che ho conosciuto, ma allora ero troppo coglione per domandare dove avessero lavorato, com’era l’emigrazione; tutti fenomeni che riguardavano la zona a me Cara di Pavana. Dove ho vissuto i miei primi anni di vita». Guccini è nato a Modena il 14 giugno del 1940 tiene a sottolineare la data (quattro giorni dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia e il medesimo giorno dell’apertura di Auschwitz), ma la madre lo portò dai nonni a Pavana, paese di castagnari e granai, piccolissimo: «sui monti è avvenuta la mia formazione, la mia lingua, tutto quello che conosco e li vivo tutt’ora.

Fu un trauma tornare alla fine dalla guerra a Modena, mio padre era impiegato alle poste e tornato vivo da un campo di concentramento riprese il lavoro. Modena non mi è mai piaciuta, anche se mi ha dato l’opportunità di suonare e scrivere». Ragioni di vita. E di fortuna. Gli incontri, gli amici, hanno creato opportunità che l’autore di Via Paolo Fabbri 43 ha saputo cogliere al volo. Alfio Cantarella, batterista della futura Equipe 84 lo invitò a suonare nei Marinos, poi I gatti: «già scrivevo canzoni. Non ero iscritto alla Siae, poi feci l’esame per melodista non trascrittore. La prima canzone fu Auschwitz, poi venne Dio è morto, la prima che firmai».

Canzoni ormai diventate patrimonio della musica italiana e non solo che in un certo modo cambiano il modo di essere cantautore. «Mi trovai al posto giusto, soprattutto al momento giusto. Non è detto che si rispetti la successione delle generazioni. Oggi che tutto è cambiato, ci si è accorti che il nuovo pare non esistere più. Le canzoni che si producono mi sembrano inutili, non amo ascoltarle come non mi piace ascoltare le mie. Allora io arrivavo subito dopo De Andrè che prendeva dalla canzone francese e aveva aggiornato, lui genovese, il linguaggio musicale dei cosiddetti ’genovesi’, Lauzi, Tenco, Paoli, che cantavano soprattutto l’amore. Auschwitz era diversa, aveva giri armonici diversi, avevo sentito i Cantacronache, passati inosservati, ma che affrontavano argomenti scomodi in un tempo che si voleva spensierato, dopo le distruzioni della guerra».

ilmanifesto.info

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