Corsi e ricorsi dei rapporti tra clan e chiesa

Nel 1990, nella stessa par­roc­chia di San Gio­vanni Bosco a Cine­città che l’altro ieri ha ospi­tato il fune­rale di Vit­to­rio Casa­mo­nica, furono cele­brate le ese­quie di Rena­tino De Pedis, uno dei boss della banda della Magliana, il cui corpo venne poi tumu­lato – con l’autorizzazione del Vica­riato – nella cripta della basi­lica di San Apol­li­nare (dove è restato fino al 2012, quando poi fu cremato).

Corsi e ricorsi sto­rici che, al di là delle coin­ci­denze, mostrano quanto le rela­zioni fra Chiesa e mafie siano state e siano ancora intrec­ciate. Una sto­ria che comin­cia da lon­tano, e lon­tano da Roma, già nell’800, quando i livelli erano con­ti­gui. Fino al 1963, quando a Cia­culli c’è la prima grande strage di mafia, e la Chiesa comin­cia a porsi il pro­blema, anche per­ché a Palermo il pastore val­dese Pana­scia aveva preso una posi­zione pub­blica netta, men­tre il car­di­nale Ruf­fini mini­miz­zava. Per arri­vare alla prima svolta biso­gna aspet­tare il 1993, con l’anatema di Gio­vanni Paolo II nella Valle dei tem­pli e l’omicidio di don Puglisi (e, l’anno suc­ces­sivo, di don Diana, a Casal di Principe).

Da allora la rifles­sione si svi­luppa e le ini­zia­tive anti­ma­fia si mol­ti­pli­cano, fino alla «sco­mu­nica» ai mafiosi pro­nun­ciata da Papa Fran­ce­sco. Ma la con­sa­pe­vo­lezza non è una­nime in tutta la Chiesa, così come l’impegno è a mac­chia di leo­pardo: accanto a preti e gruppi in prima linea, con­ti­nuano ad esserci silenzi, omis­sioni, col­lu­sioni, feste patro­nali e pro­ces­sioni reli­giose gui­date dai boss che in que­sto modo con­so­li­dano potere e pre­sti­gio, con la bene­di­zione eccle­sia­stica (a giorni la Con­fe­renza epi­sco­pale cala­bra pub­bli­cherà le pro­prie linee guida sulle pro­ces­sioni pro­prio per evi­tare infiltrazioni).

Il fune­rale del pro­prio fami­liare orga­niz­zato dai Casa­mo­nica – ben­ché Roma sia una realtà sociale diversa – si col­loca in que­sto con­te­sto. «Tra i mes­saggi più per­sua­sivi che le orga­niz­za­zioni mafiose lan­ciano per rac­co­gliere con­sensi c’è l’ostentazione dell’impunità e da que­sto punto è stato un capo­la­voro di pro­mo­zione dell’immagine pub­blica del defunto e dei suoi eredi imme­diati», spiega Augu­sto Cavadi, autore fra l’altro del sag­gio Il Dio dei mafiosi (Ed. San Paolo). «In una società ancora imper­fet­ta­mente seco­la­riz­zata, l’impunità ter­re­stre, per quanto rile­vante, non è esau­stiva. Allora con gli eli­cot­teri e la caro­vana dei fuo­ri­strada sbatto in fac­cia la mia supe­rio­rità rispetto ai poteri civili, ma con la ritua­lità reli­giosa tolgo ogni even­tuale dub­bio sulla mia impu­nità post mor­tem. La volontà del padrino è legge incon­tra­stata in cielo come in terra».

«Credo di aver fatto solo il mio dovere. Sono un prete, non un poli­ziotto e nem­meno un giu­dice», scrive sul sito inter­net della par­roc­chia don Manieri, che ha cele­brato il fune­rale. «Se un signore mi chiede di cele­brare il fune­rale di un suo con­giunto lo cele­bro, non è scritto da nes­suna parte che debba inda­gare su chi è, per­so­nal­mente non cono­scevo il nome del boss dei Casa­mo­nica per me poteva essere il più lon­tano dei parenti». Il vescovo del set­tore est di Roma (dove si trova la par­roc­chia), mons. Mar­ciante, dichiara a Radio Vati­cana di non essere stato infor­mato – del resto anche il par­roco ha ammesso di non aver infor­mato nes­suno –, spiega che «il fune­rale non si poteva proi­bire», ma aggiunge che «se aves­simo saputo che die­tro que­sto fune­rale c’era que­sto spet­ta­colo avremmo sug­ge­rito di cele­brare le ese­quie in un modo più discreto».

Ed è quello che è già avve­nuto in altre situa­zioni e in con­te­sti più dif­fi­cili rispetto a Roma, per­lo­meno sotto l’aspetto del con­trollo del ter­ri­to­rio da parte delle orga­niz­za­zioni mafiose. Nel 2007, per esem­pio, l’allora vescovo di Piazza Arme­rina, mons. Pen­nisi, non vietò il fune­rale al boss gelese Emma­nuello, ma negò l’uso della chiesa prin­ci­pale e cele­brò le ese­quie in forma stret­ta­mente pri­vata nella cap­pella del cimi­tero. Il vescovo di Aci­reale, mons. Raspanti, invece nel 2013, ha ema­nato un decreto che proi­bi­sce in tutta la dio­cesi i fune­rali reli­giosi ai con­dan­nati per mafia. Un pas­sag­gio deci­sivo secondo Ales­san­dra Dino, socio­loga paler­mi­tana, autrice di nume­rosi saggi sul rap­porto fra Chiesa e mafia, fra cui La mafia devota (Laterza): «Non si può più dire non sapevo o non avevo capito, c’è una dimen­sione pub­blica che la Chiesa non può ignorare».

Il Manifesto

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