Cultura. Inediti Schirò, il don Milani valdese

Un testimone di fede e di umanità che fece dell’impegno per il bene comune e per il riscatto sociale degli emarginati la sua missione. Una vita, quella del pastore valdese-metodista Lucio Schirò, da riscoprire anche alla luce della recente visita di papa Francesco al Tempio valdese di Torino in cui il pontefice ha esortato all’unità dei cristiani e a «camminare insieme» privilegiando la scelta dei poveri, degli ultimi e di coloro che la società esclude. Una strada intrapresa dal pastore Schirò, classe 1877, di Altofonte vicino Palermo, nella Sicilia dei primi del Novecento in un contesto degradato, di sfruttamento da parte dei proprietari terrieri e con un potere locale in mano a consorterie borghesi, che taglieggiavano gli strati di popolazione economicamente più deboli, con un fiscalismo spietato. Un uomo che per dedizione e cura pastorale dei più piccoli, soprattutto dal punto di vista scolastico, potrebbe essere paragonato a don Milani. La città di Scicli, dove operò, divenne infatti, grazie a lui, un laboratorio di alfabetizzazione
e cultura.

Lucio Schirò arrivò nella cittadina in provincia di Ragusa nel 1908 quale pastore della Chiesa evangelica metodista, in un territorio che era un grande centro agricolo. La borghesia tardo giolittiana, rapace e pronta ai contorcimenti politici, era al potere noncurante delle esigenze della povera gente. Schirò si spinse fino alle periferie geografiche ed esistenziali dell’isola, per farsi prossimo e ridare dignità alle persone “scartate”. Lo fece fondando una scuola elementare per i figli dei contadini e dei braccianti, invitando i lavoratori alle sue lezioni serali. All’istruzione e all’alfabetizzazione unì la promozione delle attività culturali come il teatro e la poesia. «Le recite, come emerge dai suoi diari e dalle testimonianze della gente, coinvolgevano tutta la collettività e non soltanto la Chiesa metodista – spiega la pro-nipote Francesca Schirò che vive a Scicli –. Dalle persone veniva chiamato ’u ministru.
Ancora oggi gli anziani della città lo ricordano come l’uomo che aveva parole di conforto per tutti, carezze e amorevolezza per i bambini e vicinanza per chi era in difficoltà». La missione di Schirò fu «non soltanto di tipo religioso, ma fu fortemente legata alla scolarizzazione ed al riscatto culturale – spiega lo storico Giuseppe Micciché, che ha conosciuto Lucio Schirò –. Erano tempi in cui il bracciantato agricolo, esclusa la difficile condizione femminile, registrava un analfabetismo che superava il 90%. C’erano centinaia di persone che vivevano nelle grotte, nelle capanne, ai margini della società e non soltanto dal punto di vista topografico». Dalle colonne de “Il Semplicista”, di cui fu direttore e fondatore, Schirò incitò alla pace e a dire «no alla guerra», nel vano tentativo di evitare il primo conflitto mondiale. Il primo numero del quindicinale fu pubblicato il 13 agosto del 1913 a un costo di 0,05 centesimi di lire. Era composto da quattro pagine e uscì fino al 1924 con due sole interruzioni: la più lunga dal 13 maggio del 1913 al 1° maggio del 1919 per via della guerra; la seconda, durante i mesi in cui il pastore metodista fu assediato in casa dai fascisti all’epoca dello squadrismo, dal 16 aprile al 28 novembre del 1921. Il giornale arrivò ad avere una tiratura di circa 2 mila copie, diffondendosi anche fuori dal circondario locale. «Nella prima fase – rileva Micciché – fu più a carattere religioso e un po’ meno politico, nella seconda fase, dopo la
Grande Guerra, diventò più combattivo. La politicizzazione del giornale crebbe, forse, in relazione alla maggiore attività politica di Lucio Schirò, che diventò sindaco nel 1920, eletto nelle file del Partito socialista italiano» ma anche per via, durante il “ventennio”, delle posizioni antifasciste del pastore metodista. In quegli anni la Sicilia e il territorio ragusano diventarono luogo di terribili violenze. In un editoriale del 1923 dal titolo provocatorio “Giù le armi fratelli!” Schirò si rivolse ai fascisti, per dire di smetterla con le violenze e i pestaggi. Lo fece in nome di una “fratellanza”, che accomunava tutti alla stessa famiglia umana. Schirò fu anche schedato come «pericoloso più per la propaganda, che per l’azione» e per questo «costantemente vigilato» si legge nel fascicolo della prefettura di Siracusa del 29 luglio 1919, nell’incartamento archiviato a suo nome. Lui e i suoi familiari non furono risparmiati da intimidazioni e sotto la minaccia delle armi, fu costretto a dimettersi da sindaco. Tuttavia resta nella memoria storica collettiva l’episodio in cui Schirò difese gli squadristi dal linciaggio: «Nonno Lucio abitava con tutta la sua famiglia a Santa Maria La Nova, in una casa a piano terra. Un giorno, era il 26 dicembre del 1920, si presentarono a Scicli, delle squadre d’azione fasciste – racconta la pronipote Francesca Schirò –. In quaranta circondarono nonno, che si presentò inerme dicendo loro: «Uccidetemi se volete. La vita mia non spetta al tristo, siccome è Sua, se la difende Cristo».

Lo colpirono violentemente alla testa. Ne seguì la reazione della popolazione sciclitana, a cui ’u ministru era molto caro. In molti si sollevarono esasperati, inveendo contro i fascisti. Nonno Lucio, ferito e sanguinante, disse alla figlia di condurli in casa sua e dar loro riparo: il suo unico obbiettivo era lottare per la pace e l’unità della comunità intera». Morì il 30 giugno del 1961. Migliaia di persone da tutta l’isola presero parte ai suoi funerali.

avvenire

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