Tutti i soldi rubati per ogni migrante

di Enrico Fierro

“il Fatto Quotidiano” del 15 giugno 2015

L’uomo che barcolla confuso sul molo di uno dei tanti porti italiani dove sbarcano le mille disperazioni dell’altra sponda del Mediterraneo, e che vedete agguantare una bottiglia di minerale e bere l’acqua per dissetarsi, certo, ma soprattutto per inebriarsi del sogno della libertà conquistata e illudersi di un benessere a portata di mano, non lo sa. Non sa che dal momento in cui ha deciso di lasciare il suo villaggio in Senegal, o in Eritrea, di fuggire dall’inferno della Siria, o dagli orrori della Libia, si trasforma in una macchina che produce soldi. Tanti, tantissimi, molto di più di quanti lui stesso possa immaginare.

Pagherà per ogni passaggio della sua avventura, dalla traversata nel deserto all’arrivo sulle coste libiche. Se per strada la carovana di furgoni e fuoristrada che lo trasporta insieme a migliaia di altri sventurati come lui dovesse incontrare miliziani, predoni, banditi, dovrà pagare una tangente per non essere ucciso. Se gli va male sarà derubato delle misere cose che ha con sé. Arrivato in una delle tante tortughe libiche in mano ai mercanti di carne umana, dovrà aspettare l’ok all’imbarco in luridi capannoni messi a disposizione dall’organizzazione. E pagare ancora. Infine la traversata, un ultimo ticket per l’arrivo in Italia. Sicilia e Calabria.

Qui sarà assistito sulla banchina del porto da medici, infermieri e volontari, interrogato dalla polizia si dichiarerà richiedente asilo. Da quel momento la sua posizione cambierà, il suo essere macchina che produce soldi raggiungerà l’apice. Fino a questo punto del “viaggio” ha fatto guadagnare l’organizzazione, dal momento in cui varcherà i cancelli del Cara di Mineo, Catania, diventerà una slot-machine dalla vincita assicurata e garantita dallo Stato italiano, per un sistema di affari collaudatissimo.

Appalti, soldi, gente da assumere, clientele da soddisfare, voti da spendere alle elezioni. Le inchieste di questi giorni su Mafia Capitale e sul “sistema” Castiglione, offrono una letteratura abbondante. Ma se il “nostro”, annoiato dalla estenuante attesa in quel campo dovesse decidere di fuggire, cosa peraltro facilissima, di attraversare lo Stretto, arrivare a Reggio Calabria e risalire la Penisola per andare al Nord ma fermandosi a Rosarno per la raccolta di clementine e arance, allora il discorso cambia ancora. Perché ora i soldi che produce non vanno più alla mafia dei trafficanti, né alle fameliche clientele politico affaristiche italiane, ma alle voraci multinazionali che producono aranciate e bibite gassate. Lui non lo sa, lui ha attraversato il Mediterraneo su una barca fradicia alla ricerca di un pizzico di libertà, lui voleva l’Europa ma ha incontrato nuovi inferni.

Il mediatore di nome Bachir

Ma a questo punto, se davvero vogliamo capire, bisogna riavvolgere il nastro e tornare alla notte che Ammar A T., nato a Damasco nel 1972, figlio di Khaled e Souad, e con in tasca un valido passaporto siriano, decide di conquistare il suo pezzo di Europa. Ha lasciato il suo Paese e da due anni è in Libano, vive di stenti, si arrangia. Suo fratello Mohammed gli manda i soldi per comprarsi un biglietto aereo per Addis Abeba, da qui, con mezzi di fortuna, arriva in Sudan, a Kartoum. Gli avevano detto che in città c’era un mediatore di nome Bachir che organizzava viaggi verso l’Egitto. Un migliaio di chilometri direzione nord nel cuore del Sahara. “Eravamo in 28, Bachir ci chiese 600 dollari ciascuno, ci caricò tutti su una Land Cruiser e partimmo. Avevamo poca acqua e del cibo”. Altre centinaia di chilometri e altro deserto, perché dalla frontiera egiziana Ammar e gli altri vengono portati al confine libico e poi con un altro fuoristrada nella città di Ajdabya, Cirenaica.

“Qui un alto ufficiale della polizia libica ci chiede 900 dollari come saldo del viaggio dalla frontiera egiziana, più 500 dollari per raggiungere la costa. Paghiamo e ci caricano su un camion con il fondo modificato, con quello ci portano in una fattoria sulla spiaggia dove ci fermiamo per cinque giorni in attesa di essere imbarcati. La sera che ci hanno dato l’ok per andare in Italia un tale di nome Rafou, che tutti conoscono come miglior organizzatore di viaggi in Italia, ci ha chiesto altri mille dollari”.

Fermiamoci un attimo, fino a questo momento Ammar ha versato nelle casse di mediatori, organizzatori e scafisti qualcosa come 3mila dollari. Il reddito medio pro-capite in Siria prima della guerra civile è di 2410 dollari. Con il ticket pagato profumatamente, può salire su un peschereccio di circa 20 metri insieme ad altre 700 persone, donne, uomini giovani, tanti bambini, hanno solo un metro a disposizione. I meno fortunati vengono chiusi nel vano motore, il caldo è insopportabile, il tanfo dei corpi sovrasta il puzzo del diesel, non si respira. Un uomo, malato di diabete, chiede soccorso, lo tirano fuori, l’aria che respirerà sarà l’ultima della sua vita. Dopo sette ore in mare aperto, Ammar e i suoi compagni di sventura vengono avvistati da una nave della Marina militare italiana. E’ la salvezza. A bordo vengono medicati, dissetati e rifocillati. Mentre la prua punta sul porto di Reggio Calabria. Qui Ammar si ferma pochi giorni, ha dichiarato di essere fuggito dalla guerra, è un richiedente asilo. L’interprete e il mediatore culturale gli spiegano che si fermerà poco nel Cpsa (Centro di primo soccorso e accoglienza) e che presto sarà trasferito a Mineo, in Sicilia, dove resterà massimo 35 giorni, il tempo necessario per il riconoscimento della protezione internazionale, lo prescrive la legge. Quando dopo pochi giorni il nostro arriva in quel deserto italiano dove spunta il Cara di Mineo, capisce che per lui l’inferno ha solo cambiato latitudine.

In quelle 400 villette che una volta ospitavano le famiglie dei marines yankee dovrebbero esserci massimo duemila persone. Ce ne sono più del doppio. Stipate in stanzette dove dormono in sette. Poco male, pensa, qui ci starò solo 35 giorni come ha detto l’interprete. Ma si sbaglia, perché la permanenza media a Mineo è di gran lunga superiore, 18 mesi. Ammar a questo punto non sa che lui è diventato una slot-machine dalla vincita assicurata.

Se butterà l’occhio su uno di quei talk televisivi che ogni sera parlano della vita svaccata dei “clandestini”, dei loro alberghi a cinque stelle e dei 40-45 euro al giorno che lo Stato gli mette in tasca, affonderà le mani nei capelli, si frugherà nelle tasche e non troverà un euro. Solo una pocket money, una carta magnetica intestata a suo nome, del valore di 3,50 euro. Potrà spenderla per comprare del cibo nei supermarket della zona, quello del centro lo giudica immangiabile, per collegarsi a internet e mandare dei messaggi alla famiglia, per acquistare cose nei mercatini clandestini allestiti all’interno del centro. Insomma, alimenterà una piccola economia. Ben poca cosa rispetto al grande business di Mineo. Per Ammar lo Stato italiano spenderà 34,60 euro, facendo due operazioni alla buona e calcolando una media di 4mila ospiti fanno 138400 euro al giorno,

4milioni 152mila al mese, quasi 50 in un anno. Un affare per il Consorzio che gestisce il centro, equamente distribuito tra Lega Coop, cooperative bianche, La Cascina. L’inchiesta sul sottosegretario Giuseppe Castiglione, sta portando alla luce un giro di mazzette e aste farlocche. Ma Ammar non sa. Non conosce Salvatore Buzzi, quello che “con gli immigrati si fanno più soldi che con la droga”, ignora l’esistenza di Luca Odevaine quello che “se me dai cento persone, facciamo un euro a persona…”. Lui e gli altri disgraziati che hanno visto la morte in faccia, di notte, in balia di scafisti senza anima e di onde troppo alte per le loro barche sfasciate, ignorano di essere i soggetti di un grande business. Per contratto e capitolato d’appalto, il suo pasto è di 150-200 grammi di pasta o riso al giorno, più un secondo di carne, massimo 200 grammi, frutta e acqua, e questo deve bastare, perché l’affare dell’emergenza clandestini, come amano chiamarla i leghisti, fascisti e opinionisti che sulla paura fanno lievitare ascolti e compensi, frutta dai 700 agli 800 milioni l’anno.

Col “padrone” nei campi siciliani

La storia di Ammar continua. Non ce la fa più ad aspettare, il tempo nella landa di Mineo non passa mai. Ha conosciuto M. Da, un ragazzo senegalese che ha speso 420mila franchi (quasi 650 euro) per arrivare in Italia (stipendio medio in Senegal, 300 euro, costo di un visto fino a 6mila), vuole solo fare un po’ di soldi e tornare nel suo villaggio per la festa del Tabaski in macchina. Questo è il suo sogno. E allora gli dice di scappare, di passare lo Stretto e di arrivare fino a Rosarno, perché da novembre fino in primavera si possono fare un po’ di soldi con le arance e le clementine. Ammar lo segue, dormirà in una tendopoli fetente e all’alba aspetterà il “caporale” che lo porterà nei campi. A lui darà una parte, tre euro, dei 25 che guadagna lavorando dall’alba al tramonto, se sceglierà di essere pagato così. Perché altri “padroni” offrono contratti diversi: 1 euro a “cascione” per le

arance, 0,50 cent per le clementine. Qualcosina in più del “fisso”, tenuto conto che ogni “cascione” può contenere fino a 20 kg di prodotto. Più ti spacchi la schiena per raccogliere i frutti a terra, più guadagni. Una parte di quei soldi Ammar e il suo amico senegalese li metteranno da parte, gli altri li spenderanno nei supermercati della zona per comprare cibo e bevande, e negli iternet café per comunicare con i familiari. Insomma, anche a Rosarno, alimenterà una piccola economia in parte legale, negozi e supermarket, in parte criminale (i caporali) e i padroni degli aranceti che possono disporre di manodopera a bassissimo costo e sempre al nero. Ci perde lo Stato che non vede un centesimo di contributi versati nelle casse dell’Inps. I “padroni”, figure singolari, sfruttatori e sfruttati allo stesso tempo. Per un chilo di arance incassano, stando ai dati della Coldiretti, meno di

7 centesimi al chilo, una miseria se si butta un occhio agli scaffali dei supermarket che espongono lucide lattine di aranciata al prezzo di 1,30 euro. Chi ci guadagna? Le grandi multinazionali che smerciano in tutto il mondo le aranciate fatte col sudore degli schiavi di Rosarno. Ma tutto questo Ammar non lo sa. Una sera si ferma ad un bar con la tv accesa, vede un signore ben vestito e pasciuto che intervista altri come lui, sente dei 35-40-45 euro al giorno che lo Stato italiano gli mette in tasca senza chiedergli nulla in cambio, fissa gli occhi spiritati del politico con la felpa che parla di alberghi a cinque stelle con vasca idromassaggio dove alloggiano disgraziati come lui, vede la gente del bar applaudire. E va via verso la sua tenda lercia e fredda. Domani è un’altra alba, altri quintali di arance da raccogliere.

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