Italo Mancini, il teologo dei doppi pensieri

Italo Man­cini, sacer­dote e teo­logo ita­liano, è stato fra i pen­sa­tori cri­stiani più attenti al con­fronto con posi­zioni teorico-pratiche distanti dalla pro­pria. Con­sa­pe­vole che la verità è un ani­male che rara­mente si lascia irre­tire all’interno di una defi­ni­zione uni­voca e con­chiusa. Da let­tore dell’Idiota di Dostoe­v­skij, Man­cini pra­ti­cava piut­to­sto una «teo­lo­gia dei doppi pen­sieri», alla ricerca di acqui­si­zioni che non si esau­ri­scono mai in un atto unico, ma sono vestite di dop­piezza, dua­lità, ambi­guità. Ne par­liamo con Pier­gior­gio Grassi, pro­fes­sore eme­rito di filo­so­fia a Urbino e allievo di Mancini.

Una delle tesi che mag­gior­mente col­pi­scono di Italo Man­cini riguarda il «pri­mato del rico­no­scere sul pen­sare». Risiede qui l’essenza della sua filo­so­fia della reli­gione e per­fino della sua religiosità?

Man­cini inten­deva ela­bo­rare una filo­so­fia della reli­gione e non una filo­so­fia religiosa.

Filo­so­fia della reli­gione che pone in primo piano il dato sto­rico della rive­la­zione. Per Man­cini reli­gione è una pro­po­sta radi­cale di sal­vezza che viene da «Altro» e non un discorso meta­fi­sico su Dio o una espe­rienza par­ti­co­lare del sacro, come quelle di cui par­lano Rudolf Otto e Mir­cea Eliade. Di fronte a que­sto «dato» l’atteggiamento giu­sto è quello erme­neu­tico, che attra­verso una serie di con­fronti (con la teo­ria e con la prassi) cerca di rico­no­scerlo nella sua spe­ci­fi­cità. Ciò non esclude il pen­sare: il pen­sare meta­fi­sico, all’interno della strut­tura erme­neu­tica, ha lo scopo di ela­bo­rare lo schema di pos­si­bi­lità di un evento straor­di­na­rio di sal­vezza. Sal­vezza in senso forte: dalla morte indi­vi­duale e dalla «impo­tenza col­let­tiva d’amore», come scri­veva Jean Paul Sar­tre. Que­sta impo­sta­zione com­porta che il cri­stiano si ponga nella sequela del Cri­sto e si carat­te­rizzi per il suo essere– per– gli altri, attento alla dimen­sione etico-politica. Una reli­gio­sità attiva e insieme sospet­tosa nei con­fronti di espe­rienze emo­zio­nali e privatistiche.

Intenso il con­fronto del teo­logo con Nie­tzsche e con quella «logica della disgre­ga­zione» che ne rap­pre­sen­tava uno dei lasciti più forti, soprat­tutto nella sua forma attua­liz­zata da Deleuze e Guat­tari. Ce lo spiega?

Man­cini con­sta­tava che nella seconda metà del Nove­cento si stava affer­mando una forma di pen­siero che era pro­fon­da­mente influen­zata da Nie­tzsche e che egli chia­mava «pen­siero nega­tivo». L’accento veniva posto sulla diver­sità, l’opposizione, la fran­tu­ma­zione, al posto degli anti­chi segni della civiltà occi­den­tale rac­colti attorno al tema dell’unità e della totalità.

L’emozione e il sen­ti­mento, sem­pre ribelli ad ogni legge, pren­de­vano il posto della con­sa­pe­vo­lezza basata sul pen­siero che rac­co­glie e domina il diverso. Come scri­veva: «Il carat­tere babe­lico della inco­mu­ni­ca­bi­lità stava pren­dendo il posto dei pen­sieri domi­nanti e delle cer­tezze comuni in cui tutti un tempo si ritro­va­vano». Rizoma, il volume scritto a due mani da Deleuze e Guat­tari, era meta­fora e insieme l’apologia della destrut­tu­ra­zione, del fram­men­ta­ri­smo del pen­siero, «del pen­siero come pul­sione non pro­gram­mata, discon­ti­nua, nascente». Con esiti poten­zial­mente vio­lenti, com’è acca­duto per le auto­no­mie ope­raie che si sono ispi­rate a que­ste prospettive.

Man­cini rite­neva che si doves­sero creare dei con­tro movi­menti cul­tu­rali, in grado di con­tra­stare tali derive in vista di una cul­tura della ricon­ci­lia­zione, sulla base di con­ver­genze eti­che con tutti gli uomini di buona volontà.

Da filo­sofo del diritto Man­cini cri­ticò for­te­mente l’idea nie­tzscheana dell’«innocenza del dive­nire», intesa alla stre­gua di un «dire sì alla vita» che si libera da resi­dui mora­li­stici come la colpa e il pec­cato. Con quali esiti?

Leg­geva que­sta espres­sione come il frutto della pre­oc­cu­pa­zione nie­tzscheana di sal­vare l’uomo e di con­durlo alle terre dell’eterno ritorno. Mai si può par­lare di pena e mai si può par­lare di colpa se ogni azione è inno­cente e non si deve ren­der conto a nes­suno di ciò che si fa, dal momento che non esi­ste limite alla volontà di potenza. Citava dai Fram­menti postumi 1987–1988, quella parte in cui Nie­tzsche dichia­rava di voler essere mis­sio­na­rio di un pen­siero più ricco, vale a dire «che nes­suno ha dato all’uomo le sue qua­lità, ne Dio, né la società, né i suoi geni­tori e pro­ge­ni­tori, né lui stesso. È un grande ristoro – osser­vava – pen­sare che un tale essere manchi».

Uti­liz­zando una bella espres­sione del teo­logo tede­sco Jür­gen Molt­mann, Man­cini defi­niva il mar­xi­smo una «reli­gione in ere­dità», cioè che inten­deva risol­vere non reli­gio­sa­mente i pro­blemi pro­pri della reli­gione. In che senso?

Nel senso che per il cri­stia­ne­simo e per Marx esi­ste una que­stione: libe­rare l’umano da una situa­zione di disfatta, di caduta, diver­sa­mente iden­ti­fi­cata. Libe­ra­zione che nel cri­stia­ne­simo si attua attra­verso la media­zione della figura del Cri­sto, men­tre per Marx si esige la media­zione del pro­le­ta­riato. Un pro­le­ta­riato che pre­senta carat­teri in qual­che modo mes­sia­nici: la somma dei suoi dolori, l’alienazione totale nei con­fronti dei con­te­sti della società civile, lo pon­gono come reale pro­ta­go­ni­sta non solo della pro­pria libe­ra­zione, ma anche dell’intera società. Non caso Karl Kor­sch aveva dichia­rato che una reli­gione dell’aldilà (il cri­stia­ne­simo), sarebbe stata sosti­tuita da una reli­gione dell’aldiqua, il comunismo.

Grandi altezze teo­re­ti­che ven­gono rag­giunte nel con­fronto con la cri­tica al pen­siero meta­fi­sico. In par­ti­co­lare Hei­deg­ger e la sua teo­ria dell’«ultimo Dio» come total­mente altro, su cui si affa­ticò Mancini…

Il rap­porto di Man­cini con il pen­siero di Hei­deg­ger è stato tor­men­tato e ha accom­pa­gnato la sua lunga rifles­sione. Nelle ricer­che gio­va­nili sul filo­sofo tede­sco, Man­cini aveva messo in luce il carat­tere tota­liz­zante e poten­zial­mente tota­li­ta­rio della sua onto­lo­gia. L’ontologia sup­pone un pro­cesso cono­sci­tivo che non mette al cen­tro la respon­sa­bi­lità verso l’altro, non mette al cen­tro l’etica, come voleva il filo­sofo Emma­nuel Lèvi­nas. Nel tema dell’ultimo Dio pre­sente nei Bei­träge zur Phi­lo­so­phie – Man­cini ne parla dif­fu­sa­mente nel suo testo postumo Fram­mento su Dio (del 2000) – intrav­ve­deva, sia pure con note­voli ambi­guità, l’apertura di un varco verso la tra­scen­denza: era l’attesa di un Dio con­ce­pito come avvento sto­rico, che «si mostra da sé», eman­ci­pato da ogni rela­zione con la meta­fi­sica greca. Un Dio, per­tanto, più vicino alla tra­di­zione giu­daica. Mi rimane la curio­sità di sapere cosa avrebbe detto Man­cini di fronte alla recente appa­ri­zione dei «Qua­derni neri», in cui il pen­sa­tore di Mes­skir­sch si è lasciato andare a duri giu­dizi anti­se­miti, senza com­piere alcuna ritrat­ta­zione della sua pre­coce ade­sione al nazionalsocialismo.

Il Manifesto

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