Teresa, monaca: La Chiesa è misogina. Ma Dio è anche donna

«La Chiesa dice:  “La cosa più bella è rappresentare Cristo; voi donne non potete!”. Cristo si offre a noi corpo e sangue, e poi qualcuno lo può rappresentare, solo se è uomo: questo è chiaramente ingiusto e non ha senso. Non solo. Nella Chiesa c’è il clericalismo, solo i preti possono rappresentare Dio: io non sono d’accordo. Succede poi anche che solo i preti possono prendere decisioni sul funzionamento della Chiesa, fatta di uomini e donne. Ecco perché credo che la Chiesa sia misogina.

A parlare è una monaca benedettina di origine catalana, Teresa Forcades i Vila, che ho incontrato nel monastero di Sant Benet a Montserrat dopo aver letto l’articolo di Michela Murgia, Persone da conoscere: Teresa. Una lunga chiacchierata su differenze e uguaglianze di genere, omosessuali e queer, vita di coppia e libertà, clericalismo e patriarcato mi ha confermato l’idea di una pensatrice di cui sentiremo parlare sempre più. Sì, perché Teresa, che ha una laurea in medicina e un dottorato negli Stati Uniti in medicine alternative e psicologia, è in prima linea, «imprevedibilmente», sui temi del femminismo, nella denuncia contro le lobby farmaceutiche, nella critica etica al capitalismo e perfino contro la posizione della Chiesa su temi scottanti come l’omosessualità e l’aborto, e contro la sua struttura patriarcale. A luglio sarà in libreria la traduzione italiana del suo libro La teologia femminista nella storia (Casa Editrice Nutrimenti).

Nel frattempo pubblichiamo in due puntate l’intervista a Teresa Forcades i Vila.

Partiamo dalle differenze di genere: dici che non sono solo un valore culturale. Cosa significa?
«Tu hai detto valore. Innanzitutto possiamo cercare di capire perché ancora oggi c’è una tensione tra ciò che normalmente chiamiamo “femminismo della differenza” e “femminismo dell’eguaglianza”. Io ho grande rispetto per tutte le donne. Tuttavia per me è fondamentale la difesa dell’eguaglianza tra i generi e l’unicità dell’individuo. Ognuno è unico, non siamo un numero in una lista di qualcosa di generico. Questo sì per me è un valore ed è quanto dice il femminismo dell’eguaglianza: lasciamo crescere liberamente le persone senza aspettare che emerga un modello».

Ma allora, secondo te, cosa pensano le donne che difendono le differenze tra i generi?
«Se guardiamo ai maschi e alle femmine è evidente una differenza. Le donne che difendono questa differenza hanno cominciato ad analizzare cosa succede all’inizio della vita, nella relazione madre-figlio e madre-figlia, relazioni che – così come quelle con il padre – segnano il nostro essere donna o uomo. Anche a me, ora che divento adulta e invecchio, dicono che tendo ad assomigliare a mia madre. Io penso: “Come è possibile?”. È così: molte donne incominciano a parlare e a muoversi come la propria madre. Dunque, ciò che chiamiamo genere (maschile e femminile) non è una costruzione solo culturale. Per un bambino, maschio o femmina che sia, il referente della vita emotiva, intellettuale e fisica è una donna. La prima soggettività-identità è un lento e difficile percorso di separazione dalla madre, un’esperienza differente se si è maschio o femmina. Tutti, da bambini, ci chiediamo: “Amerò mia madre? Sarò anche io come lei? O sarò differente?”. Ecco, il maschio non può giocare con facilità il ruolo di madre, che per lui non è certo naturale, e dunque attraversa un’esperienza di contraddizione: “Vorrei essere come lei ma non lo sono”. Questo il punto di partenza uguale per tutti. Tuttavia questa soggettività-identità infantile è anche alla base dell’errore stereotipato del così detto femminismo della differenza e certamente del patriarcato che dice: “A causa di questa differenza stabiliamo che questa soggettività- identità deve essere così per sempre nella vita».

Un errore?
«È la fossilizzazione di una dicotomia iniziale, che non deve per forza restare così per sempre. Per un piccolo, è un bene che la madre indichi cosa è buono o giusto; ma a un certo punto deve andare per la sua strada e deve essere lasciato andare. Per chiarire cosa intendo voglio citare il primo capitolo del Vangelo di Giovanni, dove si racconta il dialogo tra Nicodemo e Gesù. Nicodemo è un uomo adulto, un dottore della legge che conosce bene le scritture e la Torah; è molto affascinato da Gesù ma non vuole farsi riconoscere come suo seguace e dunque lo va a cercare nella notte per parlare con lui e gli chiede come si possa diventare adulti maturi. Gesù gli risponde: «Tu devi nascere di nuovo». Nicodemo è sorpreso: «Come può un adulto tornare nell’utero di una donna?». Gesù dice: «Non è questa la strada della rinascita, devi rinascere in acqua e in spirito». Per me questo significa essere queer. Queer è una parola inglese, per noi intraducibile: nel suo senso originario significa strano, obliquo, qualcosa che va fuori dal canone. È una parola di rottura rispetto agli schemi abituali con i quali raccontiamo la realtà. Una persona “diritta” è di solito una persona eterosessuale, una persona queer è una che devia dal percorso lineare. In realtà significa andare oltre le etichette di qualsiasi tipo. Io non immagino la vita come un percorso lineare: parti dalla soggettività infantile per arrivare a un punto in cui fai il salto e sei queer. No, non è così. Noi dobbiamo conquistare la nostra identità tutti i giorni. Se la mia soggettività infantile esce fuori ogni volta che mi trovo in difficoltà succede quello che Julia Kristeva, una psicoanalista lacaniana, chiama crisi. La crisi avviene quando una persona adulta perde la testa, perde se stessa, agisce come un bambino, senza ragionare. Può succedere a tutti noi, specialmente se qualcosa mette a rischio la nostra sicurezza. Ecco perché in periodi di crisi riemerge prepotente la violenza contro le donne, viste come coloro che sostengono i bisogni (colei che mi ha dato il suo seno, mi ha accudito, mi ha sostenuto nei miei desideri). Anche la donna, quando ha una crisi, richiede a se stessa di essere come una madre. È un processo molto complesso; secondo la Kristeva è il punto nodale del problema della violenza sulle donne».


Quando dici che il patriarcato è costruito da uomini e donne insieme per motivi psicologici, cosa intendi?
«La società patriarcale è quella in cui uomini e donne vivono da adulti con la stessa identità infantile, senza rinascere in acqua e in spirito. Rinascere significa qualcosa di nuovo ogni giorno, qualcosa di diverso per ognuno di noi; è una sfida, è la bellezza di una vita vissuta in modo pieno e consapevole. Fa anche paura, perché devi assumere la responsabilità di te stesso. Certo, amiamo la libertà, ma in realtà ne abbiamo paura. E la paura della libertà nelle questioni di genere porta a tornare indietro, alla soggettività infantile».

Per superare questo modello dobbiamo dunque rinascere in acqua e in spirito. Una strada è il cristianesimo, ma suppongo non sia l’unica strada…
«Certo che no, tu puoi rinascere in acqua e spirito ma anche essere queer. Molti queer non sono cattolici, la maggior parte dei movimenti promossi dai queer non hanno nulla a che vedere con la cristianità ma hanno una vita umana che li spinge a questa apertura indicata da Gesù nel vangelo di Giovanni: superare il modello infantile per rinascere a qualcosa di profondamente nuovo e unico».

Torniamo indietro. Pensi che la Chiesa sia misogina?
«È chiaro che la struttura della Chiesa è oggettivamente patriarcale. Se per misogina intendiamo ostile alle donne, certo che lo è. Ovviamente considero molto grave non permettere alle donne di rappresentare Cristo, perché cosa imparo io donna rispetto al fatto che sono una femmina? Da bambina non volevo diventare una donna perché percepivo che era svantaggioso. Ai maschi è permesso fare cose che alle femmine non è permesso e questo è davvero un brutto messaggio per le ragazze ma anche per i ragazzi; per tutti noi è un messaggio patriarcale, misogino. Un messaggio dato dalla Chiesa indipendentemente dal fatto che questo Papa o quel Vescovo siano buoni o cattivi. È una questione strutturale che credo vada cambiata. Come? Aprendo alle donne la possibilità di rappresentare Cristo come fanno i preti. Conosco personalmente un gruppo di donne che si batte per questo. Alcune di loro sono Vescove e sono state scomunicate; ma credo continueranno a battersi, a sognare un futuro diverso per le donne all’interno della Chiesa. Mi auguro che le loro battaglie presto diano frutti all’interno della Chiesa».

Come fai a stare dentro una Chiesa “misogina”?
«Io sono qui, in questo monastero, semplicemente perché sono stata chiamata da Dio in modo del tutto inaspettato. Sono venuta qui quando avevo 27 anni. Stavo finendo il mio master in medicina e avevo bisogno di un posto tranquillo per preparare la tesi. Chiesi ospitalità nel famoso monastero di Montserrat; ma non c’era posto e i monaci benedettini mi suggerirono di venire dalla monache. All’inizio non volevo, immaginavo che il posto fosse triste e le monache noiose. Poi mi sono accorta di essere caduta in contraddizione: io femminista che davo per scontato che le monache non potessero essere interessanti. Così ho accettato la sfida. Sono venuta a stare qui, ho trovato una comunità molto interessante e dopo un mese di studio, io che ero venuta non per diventare monaca, non per vocazione, ma solo per preparare un esame, ho sentito qualcosa che cresceva in me: era la chiamata di Dio. Io credo davvero che Dio mi abbia chiamata ad essere monaca».

Come si fa a portare un punto di vista femminile, e a battagliare per questo in una struttura misogina, senza diventare nemica degli uomini?
«La battaglia istituzionale non è un problema, perché si può sempre separare l’istituzione dalle persone, dagli uomini. Se un vescovo, un cardinale, un prete o addirittura il Papa si comporta in modo misogino io non ho problemi a dirlo o scriverlo. Non giudico, non mi sento nemica; semplicemente descrivo quello che mi pare evidente. All’interno di una coppia è diverso. La coppia condivide una totale intimità, la vita emotiva, sessuale, e credo che possa agire molto più in profondità di quanto possa fare io, anche se questo richiede molta più fatica. La vera sfida è cercare di capire cosa significa essere liberi dentro alla coppia, essere liberi e essere una cosa sola, avere il mio spazio e aprire spazio all’altro. La libertà! ».

corriere.it

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