Censure e silenzi sui preti sposati

di Luigi Sandri

Il 19 febbraio scorso papa Francesco, nel ricevere il clero di Roma, ha lasciato che, chi voleva, intervenisse. Cogliendo l’occasione, don Giovanni Cereti (teologo, ecumenista, già docente in varie università pontificie), dopo aver sottolineato la carenza di clero che caratterizza molti Paesi, ha sollevato il problema dei preti latini che si sono sposati e che, secondo lui, sarebbe bene riammettere nel ministero, se essi lo desiderassero; del resto, aggiungeva, oltre alle Chiese ortodosse, anche Chiese cattoliche orientali hanno, con il clero celibe, quello uxorato. Il papa – hanno riferito l’indomani molti giornali – ha risposto, senza elaborare: «Il problema è presente nella mia agenda». Ed ha reso noto un particolare inedito: il 10 febbraio a Santa Marta con lui avevano concelebrato sette presbìteri che festeggiavano il 50° di sacerdozio; e, con loro, vi erano anche cinque preti sposati, anch’essi ordinati nel 1965.

“Il papa apre ai preti sposati”: con titoli come questo, il giorno dopo praticamente tutti i giornali italiani evidenziavano l’accaduto; ma in questo coro mancava Avvenire, “quotidiano di ispirazione cattolica” controllato dalla Conferenza episcopale italiana, il quale non perde il vizietto della censura su problemi ecclesiali considerati tabù (da esso, o da qualche porporato di riferimento, seppure non più ai vertici della Cei). Il giornale riservava un’intera pagina all’udienza, ma evitando, nei titoli e nei vari sommari, la questione del clero sposato. E, nel testo, così raccontava: «Rispondendo alle domande di dieci parroci romani, il papa si è anche soffermato sulla necessità del contatto con il popolo, e sollecitato da uno di loro sulla carenza dei preti e su quelli che, abbandonato il sacerdozio, vorrebbero poi ritornare, ha fatto anche un accenno a tale problematica esprimendo il suo dolore per queste persone». L’aggettivo cruciale, “sposati”, il giornale lo ignora; e così il ricordo del cinquantesimo dei dodici presbìteri.

Non sappiamo se a censurare sia stata già la giornalista che ha scritto il pezzo, Stefania Falasca, o il direttore Marco Tarquinio. Sappiamo però che l’evidentissima censura è sfuggita al castigatore dei giornali, già Rosso Malpelo, e ora semplicemente Gianni Gennari, che firma la rubrica “Lupus in pagina”. Ora, questo prete sposato (con rito concordatario, dopo aver ottenuta la dispensa papale dal celibato), fervidissimo sostenitore del clero sposato, ci verrà a dire che non si è accorto della “svista” del quotidiano sul quale da anni, nella sua rubrica, elenca puntigliosamente errori, censure, sviste, pressappochismi altrui.

Tanto più stupisce la censura di Avvenire, in quanto Gennari era uno dei cinque preti sposati presenti a Santa Marta. Come mai, nella sua rubrica, non ha bacchettato il suo stesso giornale? Chissà: forse ha protestato privatamente con Tarquinio; ma, se (se) così fosse, riterrà ciò sufficiente per sgravarsi la coscienza? E, ove il suo direttore gli avesse proibito di parlare della vicenda nella sua rubrica, non gli pare penoso continuare a collaborare con un giornale che censura un tema che pare costituire la sua mission ecclesiale? Perché, allora, non scrive a qualche importante giornale per denunciare la censura da lui subita?

Ricorderà, il Nostro, che don Abbondio, a quel famoso bivio dove lo attendono i bravi, chiede loro consiglio. E uno dei due, sornione, risponde: «Oh! suggerire a lei che sa di latino!». Anche Gennari, ora, è a un bivio; e lui, di latino, ne sa. Ma ci vorrebbe coraggio; purtroppo, però, come riconosceva il curato manzoniano, «il coraggio uno non se lo può dare». Non vogliamo pensare sia il caso di Gennari.

adistaonline.it

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