Il Complotto. Argomenti contro le dietrologie a sostegno del regime siriano

Preti, monaci, diplomatici, lettori di arabo nelle università, accademici, presidi di facoltà, giornalisti, segretari di partito, deputati. In Italia un vero esercito di insospettabili sostiene a spada tratta la tesi del Complotto ai danni del regime di Damasco, finendo colpevolmente nel sostenere la repressione in atto in Siria da oltre otto mesi e che ha causato finora l’uccisione documentata di oltre 4mila persone.
La loro tesi è che la Siria in rivolta non esiste. Esiste un popolo in ostaggio di uno scenario reale (il regime degli al Assad in piedi da 41 anni) e di due potenziali minacce: l’invasione della Nato, e la conseguente occupazione americano-sionista, o l’avvento di un emirato salafita oscurantista anti-tutto.
Il compito di questa legione di sostenitori italiani di al Assad è delegittimare la rivolta in corso. Descriverla come una montatura delle due principali tv satellitari arabe (al Jazeera e al Arabiya), parte di un complotto americano per contrastare l’ipotetico fronte irano-russo-cinese, simbolo per loro della Resistenza al Male.

Arabisti e islamisti improvvisati
Questi lealisti italiani diventano improvvisamente esperti di linguaggi mediatici, arabisti provetti, studiosi di islam, professori di storia del Medio Oriente. Altri ammettono più candidamente la loro ignoranza, affermando di voler raccontare la Verità dopo un breve soggiorno nelle tranquille vie di Damasco, visitata per la prima volta senza conoscere una qaf di arabo. Ciascuno per la propria parrocchia: dai Musolino e i Diliberto dei Comunisti italiani, fino a quelli di Progetto Eurasia, passando per tanti altri con cui ho avuto in questi mesi occasione di confrontarmi direttamente o indirettamente.
Accomunati dall’antagonismo all’imperialismo americano e dalla ricerca di visibilità, parlano moltissimo di Stati Uniti, di Israele, di al Jazeera e di salafiti, e pochissimo invece degli oltre 22 milioni di esseri umani che abitano la Siria.
E visto che sulla questione siriana, i grandi gruppi editoriali italiani oscillano tra l’indifferenza e il sostegno alle tesi della rivolta, per gli antagonisti “esser contro” oggi significa anche esser contro i rivoltosi siriani. Colpevoli di essere a loro insaputa difesi, a intermittenza, dai principali media del sistema.
Agli occhi di questi intellettuali lealisti, la morte dei civili siriani uccisi dalle forze di al Assad non vale come quella dei civili di Gaza. Semplicemente perché la questione palestinese serve la provinciale causa antagonista italiana. Mentre quella siriana li costringerebbe a mettere in discussione il loro credo ideologico.

73mila filmati amatoriali postati su internet
Si negano così le uccisioni, gli arresti, le torture. Pratiche non certo nuove nel panorama siriano dell’ultimo mezzo secolo, ma inedite per la vastità delle aree del paese in cui vengono compiute e per la sistematicità ormai giornaliera con cui vengono commesse.
Una realtà negata affermando che le decine di migliaia di testimonianze video non sono autentiche. In questi otto mesi ho potuto visionare centinaia degli oltre 73mila filmati amatoriali postati su internet. Non sono artefatti negli studi televisivi di Doha o Dubai come molti antagonisti sostengono. Non sono registrati a Tripoli in Libano o a Falluja in Iraq come i lealisti affermano. Si riconoscono le strade delle principali località siriane. Si ascoltano i vari accenti locali.
Si leggono targhe delle auto e le prime pagine dei giornali del giorno. Si vede con chiarezza il sangue schizzare dal foro della pallottola sotto la nuca di un bambino o sullo sterno di un giovane.
Gli analisti del Complotto non sanno cosa rispondere alla domanda sul perché siamo costretti a ricorrere a filmati amatoriali di YouTube per cercare di capire cosa stia avvenendo in Siria. Mazen Darwish – direttore del Centro siriano per la libertà giornalistica e di espressione, da anni impegnato nella lotta contro le violazioni contro gli operatori dell’informazione e per questo più volte in carcere – ha documentato, dal 15 marzo al 9 novembre, 117 casi di arresto e maltrattamento di giornalisti in Siria. Lo ha fatto presentando una lista completa di nomi, cognomi, affiliazione professionale, date e luoghi di detenzione, tipo di maltrattamento inflitto ai giornalisti siriani, arabi e non arabi.
La realtà viene negata anche sostenendo che sono false le testimonianze raccolte da noi reporter ai confini della Siria col Libano, la Giordania e la Turchia.
Sommando il numero di siriani fuggiti in questi tre paesi otteniamo la cifra approssimativa di oltre 20mila persone, per lo più civili. Sono tutti agenti del Complotto? Sono tutti sul libro paga dei sauditi, per conto degli americani e dei sionisti? E noi giornalisti siamo tutti prezzolati e in malafede oppure grandi ingenui pronti a riportare ogni parola senza verificare?
Altri lealisti italiani affermano che l’Osservatorio per i diritti umani in Siria (Ondus), una delle principali fonti di informazioni sulle violazioni giornaliere commesse nel paese, diffonde menzogne e riceve soldi dall’estero, perché il suo presidente trasmette le notizie da Londra.
È vero: Rami Abdel Rahman vive ora nella capitale britannica. Ma nessuno si chiede perché non possa lavorare e vivere nella sua Siria? L’Ondus è comunque attiva e opera in Siria con una rete di attivisti e ricercatori nel campo della difesa dei diritti umani da almeno dieci anni.

Il vignettista, il poeta, il cameraman
Che dire poi del pestaggio subito dal vignettista Ali Farzat a Damasco? Dello sgozzamento del poeta Ibrahim Qashush ad Hama? Dell’uccisione del cameraman Farzat Jarban a Homs? A Farzat hanno spezzato le dita con cui disegnava le caricature contro il regime. A Qashush hanno tagliato la gola, per arrivare alle corde vocali con cui cantava gli “inni della rivoluzione”. A Jarban il cameraman hanno cavato gli occhi.
Per gli antagonisti, ci sono le bande di terroristi dietro al pestaggio di Farzat, allo sgozzamento di Qashush e alla barbara uccisione di Jarban. Per dare la colpa – affermano – al governo di Damasco. Perché avventurarsi in una simile acrobazia logica, inventando entità di cui nessuno ha ancora mai dimostrato l’esistenza (a parte le confessioni-farsa di pseudo rei confessi mostrate dalla tv di Stato) pur di salvare un regime, i cui crimini sono invece documentati da decenni?
Chi si ostina a voler credere alla retorica del regime, deve però avere la coerenza di andare fino in fondo. Il presidente al Assad continua a ripetere che sì, sono stati commessi «alcuni errori» dalle forze dell’ordine, ma che di questi “errori” terrà conto la commissione d’inchiesta incaricata di far luce sugli «eventi in corso». Sin da metà aprile, le autorità hanno annunciato la creazione di una commissione d’inchiesta.
Da mesi non si ha più notizia dei risultati, seppur parziali, del suo lavoro. Perché? Su più larga scala, non si ha notizia alcuna dei processi a cui dovrebbero esser sottoposti le centinaia di terroristi che ogni giorno, sugli schermi della tv di stato e sulle pagine del sito internet dell’agenzia ufficiale Sana, vengono mostrati come rei confessi di aver compiuto ogni tipo di barbarie contro i civili e «le forze dell’ordine». Perché?

I ribelli? Fondamentalisti o arretrati
Si tratta sempre di siriani (solo il 22 novembre, per la prima volta, si è appreso che uno studente saudita di 26 anni, di madre siriana, è stato ucciso a Homs), molto spesso con la barba («fondamentalisti»…) e originari delle zone rurali («arretrati»…). Ma non si capisce perché mai da otto mesi siano in attesa di giudizio. Non è stato forse abolito lo stato d’emergenza? O forse i processi sono già iniziati, o addirittura le condanne sono state emesse, senza che la stampa di Damasco ne abbia dato conto? A proposito dei fermati dal 15 marzo ad oggi: il 20 novembre gli attivisti fornivano una lista di oltre 14mila persone ancora in stato di arresto. Il regime non ne dà conto.
Perché? Eppure, tra il 5 e il 15 novembre scorsi, le autorità hanno liberato – dandone notizia sui media ufficiali – circa 1.800 «fermati che non si sono macchiati di crimini di sangue». Se fosse così, non è forse questa una violazione della sovranità della Siria di fronte alle ingerenze esterne? Ma anche se non hanno commesso crimini di sangue, quei 1.800 saranno pure stati fermati perché sospettati di aver commesso qualche crimine. Perché rilasciarli? Non sono più “terroristi”? Non sono più “agenti del Complotto”? E ancora: la sera del 15 novembre, la tv di stato ha trasmesso le immagini di alcune di queste persone tornati in libertà: sono apparsi i volti di decine di ragazzi e uomini, quasi tutti con la barba, e nessuno con segni di percosse o tortura sul volto, tutti con l’aria di provenire da sobborghi degradati o dalle campagne.
Tra loro, si è appreso all’indomani, c’erano anche il medico Kamal Labwani, prigioniero politico di lunga data, e Rafah Nashed, psicanalista siriana arrestata ad agosto. Il fermo di questi due non era mai stato ammesso dalle autorità. La Nashed, che aveva avviato a Damasco un laboratorio di terapia di gruppo «per sconfiggere la paura», era stata accusata di incitamento al sovvertimento del sistema politico e violazione dell’ordine pubblico, e rischiava una pena di circa sette anni di detenzione. Né la Sana né la tv di stato hanno mostrato le immagini della Nashed e di Labwani rimessi in libertà. Forse perché non avevano la barba?


Lorenzo Trombetta – europaquotidiano

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