Censura di massa

di: Alessio Mannucci  (fonte: ecoplanet.com)

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Franco Levi, ha presentato una proposta di legge che intende “regolare” i prodotti editoriali del web, prevedendo sanzioni per eventuali diffamazioni. Tutti i siti, compresi i blog, dovranno registrarsi al “ROC”, il Registro per gli Operatori della Comunicazione. «Non abbiamo interesse a toccare i siti amatoriali o i blog personali – rassicura Levi – non sarebbe praticabile». «Quando prevediamo l’obbligo della registrazione – continua Levi – non pensiamo alla ragazza o al ragazzo che realizzano un proprio sito o un proprio blog, pensiamo, invece, a chi, con la carta stampata, ma anche con internet, pubblica un vero e proprio prodotto editoriale e diventa, così, un autentico operatore del mercato dell’editoria». Levi difende anche il percorso di partecipazione con cui la proposta è stata costruita: «Non abbiamo lavorato nel chiuso delle nostre stanze: abbiamo pubblicato uno schema di legge e un questionario sul nostro sito internet e ci siamo fatti aiutare da esperti dell’economia e del diritto. Il risultato – spiega – è leggibile sul nostro sito, dove pure si possono trovare in totale trasparenza tutti gli elementi e i dettagli dell’intervento pubblico a favore dell’editoria».

Il disegno di legge è stato approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 12 ottobre: il Governo, su proposta del premier Romano Prodi, ha delegato se stesso all’emanazione di un testo unico per il riordino dell’intera legislazione del settore editoriale. Ora il ddl passerà all’esame delle Camere. Intanto, si sono scatenate le polemiche. Il ministro Di Pietro, dal suo blog, si è scagliato contro la proposta, che reputa «liberticida, contro l’informazione libera e contro i blogger che ogni giorno pubblicano articoli mai riportati da giornali e televisioni».

«Per quanto ci riguarda – spiega Giuseppe Giulietti, deputato DS e fondatore di Articolo21 – riteniamo un gravissimo errore l’assimilazione tra i siti editoriali tradizionali e l’intero universo dei blog». «Voglio sperare che il ddl del governo non voglia davvero regolamentare i blog nella rete, sarebbe come voler fermare l’acqua del mare», parafrasa il responsabile Informazione del PDCI, Gianni Montesano. Che però aggiunge: «Una cosa è la libera circolazione delle idee e delle informazioni, altra cosa un’iniziativa editoriale, per la quale, in quel caso sì, è giusta una regolamentazione».

È Beppe Grillo, titolare di uno dei blog più visitati al mondo, a guidare il fronte degli scontenti. «Palazzo Chigi ha approvato un testo per tappare la bocca a internet e nessun ministro si è dissociato. La prova ? La legge Prodi-Levi prevede che chiunque abbia un sito debba metterlo sul ROC dell’autorità delle comunicazioni, produrre certificati e pagare soldi anche se non lo fa a fini di lucro. Il 99% dei blog chiuderebbe. Il restante 1% risponderebbe, in caso di reato, di omesso controllo, e incapperebbe negli articoli 57 e 57 bis del codice penale. In pratica, galera sicura. Se questa legge passa, sarà la fine della Rete in Italia. Io sarò costretto a trasferirmi in un Paese democratico».

«Niente censure», risponde Levi, nessun controllo di Stato su internet. «Il governo – spiega il sottosegretario alla presidenza – non ha alcuna intenzione di tappare la bocca alla rete, non ne avrebbe neppure il potere. Ha soltanto varato un disegno di legge per mettere ordine al settore. Una cosa è un ragazzo che apre un sito, un’altra chi pubblica un vero prodotto editoriale. Vogliamo creare le condizioni per un mercato libero, aperto e organizzato». Insomma, sostiene il sottosegretario, «lo spirito della legge è chiaro: quando prevediamo la registrazione non pensiamo al ragazzo che realizza un proprio sito, ma chi attraverso internet fa informazione». Certo, ammette, «siamo consapevoli che il confine è sottile e non facile da definire, ed è per questo che ci affidiamo al garante».

Ma il blog di Grillo, che fine farà ? «Non spetterà al governo deciderlo», dice Levi.

Si può garantire un libero flusso dell’informazione impedendo l’utilizzo in rete, magari come chiavi di ricerca, di parole potenzialmente pericolose? Questa la domanda a cui bisognerà rispondere se andrà in porto il nuovo progetto annunciato dal commissario europeo alla Sicurezza Franco Frattini, intenzionato a mettere al bando termini come “bombe” o “uccidere”.

“Intendo condurre una indagine esplorativa con il settore privato – ha spiegato Frattini a Reuters – su come sia possibile utilizzare la tecnologia per impedire che la gente utilizzi o ricerchi termini pericolosi come bomba, uccidere, genocidio o terrorismo”. Le dichiarazioni del Commissario, che già in passato aveva espresso alcune perplessità sulla disseminazione online di certe informazioni, non sono per ora destinate a tradursi in una normativa o in una tecnologia specifica: l’appello di Frattini è al settore privato e a quello pubblico, affinché collaborino individuando delle strade possibili.

In tal senso, il prossimo novembre Frattini intende inserire questa idea in una serie di misure anti-terrorismo che verranno proposte agli stati membri dell’Unione Europea, procedure che comprendono sistemi più efficienti per la prevenzione di attentati e l’analisi dei passeggeri in transito negli aeroporti. Sarà un caso, ma le dichiarazioni di Frattini sono giunte l’11 settembre, a sei anni dall’attentato alle Torri Gemelle, proprio in concomitanza dello European Security Research and Innovation Forum, un meeting che ha riunito i principali esponenti dell’industria tecnologica europea.

Secondo Frattini, è necessario muoversi in una direzione di maggiore severità, in quanto la rete, come già più volte ripetuto da molti esperti e diverse amministrazioni, viene utilizzata in modo massiccio dalle reti terroristiche internazionali. A chi ha definito il progetto di Frattini di “censura selettiva”, il Commissario ha risposto che. “istruire qualcuno su come si costruisce una bomba non ha niente a che vedere con la libertà di espressione, o la libertà di informare. Il giusto equilibrio a mio avviso è dare priorità alla protezione dei diritti assoluti e, primo tra tutti, quello di vivere”. Il Commissario ha garantito che non ci potrà essere alcun freno alla divulgazione di documenti storici, opinioni o analisi. Quel che va bloccato, ha spiegato, è la diffusione di istruzioni operative che i terroristi possono far proprie ed utilizzare. “Il livello della minaccia – ha sottolineato Frattini – rimane molto elevato”.

Tra le misure che dovranno essere implementate all’interno dell’Unione Europea, Frattini auspica modi più veloci per il blocco dei siti web. Il Commissario lamenta come in molti paesi dell’Unione sia ancora assai difficile pervenire ad una disconnessione di certi siti in tempi rapidi.

A chi l’accusa di fornire da anni alla dittatura birmana programmi e tecnologia per sottoporre a censura informazioni e opinioni che circolano via computer, Fortnet, un’azienda di Sunnyvale, nella Silicon Valley, risponde che non vende i suoi prodotti direttamente, ma attraverso società intermediarie. Non sa quindi molto dei clienti finali, anche se ritiene che siano essenzialmente aziende private che acquistano «filtri» da utilizzare, ad esempio, per impedire al loro personale di accedere a siti porno. Gli investigatori di Open Net Iniziative, osservatorio creato dalle università di Harvard, Oxford, Cambridge e Toronto per monitorare lo «stato di salute» di Internet, obiettano che tempo fa il capo delle vendite della società è stato ripreso dalla tv birmana mentre incontrava il capo del governo del Paese asiatico.

«No comment » anche da altre società californiane come Websense e Blue Coat System, la cui tecnologia è usata per censurare la rete in Paesi mediorientali come Yemen ed Emirati. Blue Coat, invece, ammette tranquillamente di lavorare per il governo dell’Arabia Saudita; anzi, sembra orgogliosa di assistere un alleato degli USA a, anche se il governo di Riad non è esattamente una democrazia. Per tenere sotto controllo il web, Singapore, altra dittatura che ha forti legami con l’Occidente, si affida invece a SurfControl, società a capitale britannico ma basata in California. Quanto all’Iran, non è chiaro quale tecnologia usi oggi: in passato ha sicuramente basato le sue censure sul sistema SmartFilter di SecureComputing, ma la società americana sostiene che Teheran l’ha usato illegalmente e non dispone degli ultimi aggiornamenti del programma.

La rivoluzione digitale di Internet ha aperto nuove frontiere di libertà nella circolazione delle informazioni ma, com’era forse inevitabile, ha anche spinto molti governi autoritari a cercare di neutralizzare gli aspetti democratici della rivoluzione digitale. Chi pensava che imbrigliare uno strumento universale come la rete equivalesse a tentare di svuotare il mare con un secchio, chi era convinto che il regime comunista cinese non sarebbe sopravvissuto all’avvento della comunicazione a banda larga, sta rivedendo i suoi giudizi: a Pechino, il PCC rimane al potere, mentre Internet è soggetto a una severissima sorveglianza. E i giganti americani di Internet — Microsoft, Google, Yahoo ! e Cisco Systems — sono stati ribattezzati dagli internauti «la banda dei quattro» per la collaborazione offerta alle autorità di Pechino nei loro interventi repressivi, nel tentativo di non perdere il ricco mercato cinese.

Quello della Cina è il caso più macroscopico e discusso, ma la censura su Internet si sta sviluppando a macchia d’olio in mezzo mondo. Secondo Open Net Iniziative (ONI), alcune repubbliche dell’ex URSS — soprattutto Bielorussia, Tagikistan e Kirghizistan — hanno ripetutamente smantellato interi siti web o bloccato quelli controllati da forze di opposizione nei periodi che precedono le consultazioni elettorali. L’elenco degli altri Paesi che cercano in un modo o nell’altro di mettere la «museruola» a Internet è lungo e comprende, oltre a quelli già citati, Egitto, Cuba, Corea, Siria, Tunisia e Vietnam. Apparentemente, invece, Russia, Malesia, Israele e Venezuela non hanno programmi governativi di intervento nella rete.

Quanto all’Europa, secondo l’organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione, ben 24 Paesi su 56 intervengono in qualche modo per limitare l’attività di Internet. Ma quali sono le tecniche d’intervento più comuni ? C’è chi scatena attacchi di hacker contro i siti che danno più fastidio e chi, come la Cina, gioca d’anticipo e impone a chi vuole operare nel suo Paese di esercitare un’autocensura preventiva sui contenuti. L’Iran, oltre a censurare, ha bloccato i sistemi di comunicazione a banda larga in modo da limitare l’afflusso e la velocità di circolazione di testi e video. La misura più drastica l’ha adottata la giunta militare birmana che nei giorni della protesta ispirata dai monaci buddisti è arrivata addirittura a disattivare l’intera rete.

Misure estreme che fanno notizia. Si parla meno dell’ordinaria censura, quella di routine, in genere attivata utilizzando programmi e tecnologie sviluppate da società americane di quella stessa Silicon Valley che ha regalato al mondo la libertà della comunicazione universale «a portata di clic». Gli studi fin qui condotti escludono i Paesi democratici dell’Occidente: si dà per scontato che qui i controlli, quando ci sono, servano a combattere il terrorismo o la pornografia, non a censurare la libertà di espressione. In realtà, anche in Europa non tutto è scontato, come nel caso della Germania che blocca siti e messaggi filonazisti.

Al Congresso di Washington è stato appena presentato il “Global Online Freedom Act”, un progetto di legge che punta a evitare che l’America continui a esportare software destinato a un uso politico repressivo. Non esistono soluzioni semplici sul piano tecnico (il software usato dai governi è abbastanza simile a quello sviluppato per combattere intrusioni nelle reti aziendali e anche nelle utenze domestiche), ma anche su quello politico il quadro non è del tutto nitido. Tanto più che nemmeno il Congresso si può considerare davvero indenne da tentazioni censorie. Prendiamo il caso Wikipedia: la recente indagine dalla quale è emerso che moltissime voci dell’enciclopedia «spontanea» sono state alterate dall’intervento di entità come la CIAa, il partito repubblicano, la chiesa cattolica e quella anglicana, è stata avviata da alcuni neolaureati del California Institute of Technology dopo aver scoperto che numerosi parlamentari USA avevano ripulito le loro scheda che compare su Wikipedia.

In campo internazionale, mentre gli USA hanno lanciato una campagna mediatica e politica ferocissima sulle costanti violazioni delle libertà individuali in Cina, due giganti della Information and Communications Technology statunitensi hanno firmato accordi commerciali che queste violazioni le consentono. Yahoo ! Incorporated, la più nota corporation pubblica di servizi Internet con quartiere generale a Sunnyvale in California, e Microsoft Corporation, sede Redmond a Washington, hanno firmato insieme a molti altri operatori dell’ITC un accordo con Pechino che restringe ancora di più la già scarsa libertà d’opinione in vista del 17° Congresso del Partito Comunista Cinese, he si è tenuto intorno alla metà di ottobre.

Per continuare ad operare nel mercato cinese, i firmatari hanno scelto di impegnarsi a rispettare un “codice di condotta” che ha poco il sapore della deontologia e molto quello della censura. Il codice è stato elaborato dalla Internet Society of China, un organismo semiufficiale i cui membri appartengono all’Accademia delle Scienze o ad altri think-thank vicini al Partito Comunista Cinese. Principio guida sottoscritto dalle Corporations: «non diffondere messaggi erronei ed illegali». Tra i comportamenti da seguire c’è quello, ad esempio, di costringere i blogger cinesi a registrarsi con nomi e cognomi reali. Secondo l’organizzazione non governativa Reporters sans Frontieres, che ha lanciato l’allarme sul codice firmato con il silenzio di molti media, si tratta di «un’ iniziativa che avrà conseguenze molto gravi sulla blogosfera cinese e che segna la fine dei blogger anonimi… rischia di aprirsi una nuova ondata di repressione e di censura».

Le notizie che scappano ancora alle maglie della censura sono troppe per Pechino e rischiano di turbare la «società armoniosa» del presidente Hu-Jintao. Per evitare ciò, lo scorso agosto sono state arrestate sessanta persone nel nordest del Paese con l’accusa di avere diffuso notizie false attraverso Internet e telefoni cellulari. Reporters sans Frontieres ha provato ad ottenere una conferma o una smentita dalle sedi di Pechino di Yahoo ! ed MSN (la divisione Microsoft che si occupa di messaggistica). Quello che hanno ottenuto è stato un rigidissimo “no comment”.

Yahoo ! era già nell’occhio del ciclone per avere rivelato alla polizia cinese il nome di Shi Tao, un giornalista condannato a dieci anni di prigione per aver pubblicato una circolare dell’Ufficio per la Propaganda del Partito Comunista con la quale si ordinava ai giornalisti di non affrontare alcuni argomenti «scomodi». Il regime nazi-comunista cinese non ha gradito anche le proteste dei famigliari dei 181 minatori rimasti intrappolati sottoterra per una settimana a Xintai, nella provincia dello Shandong: le proteste, riprese da un videofonino, hanno fatto il giro del mondo attraverso YouTube. Le autorità cinesi della città di Xiamen, invece, messe in minoranza da SMS e Internet in una mobilitazione popolare contro la creazione di un impianto chimico, hanno obbligato i frequentatori dei siti web locali a registrarsi con il proprio nome e cognome nei forum nei quali esprimono le proprie opinioni. Non solo: ogni post sarà valutato prima della sua pubblicazione e qualsiasi post inaccettabile verrà bloccato: un funzionario ha spiegato che “coloro che diffonderanno informazioni false o dannose saranno arrestati o multati”.

Le autorità cinesi hanno anche bloccato un sito chiamato Great Firewall of China che, tramite un server situato in Cina, permetteva di verificare se un sito (o blog) fosse bloccato dal Grande Firewall Cinese. Inoltre, sono stati bloccati YouTube, Wikipedia e il sito Blogspot.com, già bloccato in precedenza per via di post del blogger cinese Chinabounder, che raccontava i propri successi sessuali con una signora mentre lavorava come insegnante di inglese. Ancor più recentemente, in Cina sono risultati inaccessibili i motori di ricerca americani Google, Yahoo ! e Live Microsoft: gli utenti venivano reindirizzati automaticamente sul motore cinese Baidu, che “evita” pagine sgradite a Pechino. La sospetta censura è stata denunciata da diversi grandi blog americani, come TechCrunch, Digital Marketing Blog e Blogoscoped. Google in un primo tempo ha confermato il blocco. Poi, il 19 ottobre, il portale del motore di ricerca era di nuovo raggiungibile dalla capitale e da altri grandi centri. Eppure, per entrare sul mercato cinese, dove ad esempio il portale Alibaba vale (collocamento sulla borsa di Hong Kong previsto il 6 novembre prossimo) la bellezza di 1 miliardo e 320 milioni di dollari, sia Google che Yahoo ! hanno accettato limitazioni e una collaborazione spesso fin troppo aperta e accondiscendente con le autorità di Pechino. Una commissione del Congresso americano ha recentemente avanzato il sospetto che i vertici di Yahoo ! abbiano mentito sulle informazioni fornite a Pechino su dissidenti cinesi che frequentano internet.

La sfida per il controllo è comunque mastodontica. In Cina, gli utenti della rete sono 137 milioni, il secondo posto per numero di connessioni dopo gli Stati Uniti. Il paese è diventato quest’anno il primo mercato mondiale per il colosso dei cellulari Nokia. Senza un accordo con l’ITC mondiale, è impossibile esercitare un controllo e una censura efficaci, se non assoluti. Ne sa qualcosa la NSA, che negli USA si è accordata con le compagnie private per ottenere intercettazioni e dati di qualsiasi comunicazione. La sfida lanciata alla rete, l’11 luglio del 2001, dall’allora presidente cinese Jiang Zemin, contro «l’informazione perniciosa», per trasformare la diffusione di materiale «segreto o reazioniario» in crimini capitali, non sarebbe possibile senza l’acquiescenza del mercato. Oggi Yahoo !, solo una delle tante Corporations, si difende ammettendo che sottostare a determinate regole è l’unico modo per operare nel mercato cinese.

In Europa, la censura politica, non particolarmente in voga, cede il passo a un filtraggio etichettato come «sociale», rivolto in genere ai contenuti che risultano illegali secondo le leggi dei rispettivi paesi. È il caso soprattutto di materiali pornografici e pedo-pornografici, di contenuti giudicati xenofobi o razzisti e di materiale considerato come incitante all’odio e al terrorismo. Negli ultimi anni, tuttavia, i paesi europei stanno ricorrendo sempre di più allo strumento del filtraggio sociale, non solo rispetto all’informazione illegale, ma anche rispetto a un’altra categoria di contenuti menzionata nel Piano d’Azione per la Promozione dell’Utilizzo Sicuro di Internet: quella del materiale «nocivo». È così che viene definito tutto ciò che può risultare offensivo dei valori e dei sentimenti di qualcuno, che si tratti di sentimenti politici, religiosi o di altra natura.

L’auto-regolazione volontaria delle società che forniscono servizi Internet è uno dei punti chiave delle strategie delineate dal Piano europeo, una modalità di controllo sull’informazione che punta ad una cooperazione tra le imprese e gli stati, da attuarsi con mezzi più o meno incisivi a seconda delle caratteristiche dei casi, segnalati da apposite agenzie governative. Adottata già nel 2004 dal Regno Unito, seguito da Norvegia, Danimarca, Svezia e Italia, la politica dell’autoregolazione risulta spesso «volontaria» solo formalmente, essendo in molti casi sollecitata e regolata dalle autorità attraverso provvedimenti legislativi. In alcuni casi, come in Germania, sono stati i motori di ricerca e i provider stessi a decidere di unire le forze per organizzare il filtraggio di contenuti nocivi ai minori (sesso e violenza, ma non solo), basandosi su una lista nera fornita da un’agenzia statale. Ed è proprio in Germania che l’effetto di questa politica si è fatto sentire in maniera pesante, sconvolgendo i membri delle comunità di Flickr.

Flickr è la piattaforma di condivisione di immagini online più popolata della rete, con milioni di iscritti in tutto il mondo, che annovera tra i suoi membri, oltre a casalinghe disperate che morivano dalla voglia di invadere la rete con i propri autoscatti e feticisti del fotolog e del report delle vacanze, anche moltissimi fotografi, illustratori, grafici e professionisti della creazione e della manipolazione di immagini. Eserciti di creativi che nelle pause dal lavoro sfogano il loro immaginario represso negli scontri di Photoshop Kung Fu, esperti di fotoritocco che si divertono con i montaggi, pittori, scultori e artisti di ogni sorta, che usano il sito per far conoscere le loro creazioni. Dal giugno scorso, gli utenti tedeschi non possono visualizzare il contenuto delle immagini che non siano «flaggate» come «sicure», né quelle prive di «flag». Quello dei «flag» è un sistema di auto-filtraggio che il software offre all’utente come servizio per limitare l’accesso alle foto che ritiene non del tutto «sicure». L’utente può decidere di valutare o meno le sue immagini e può valutare le immagini degli altri utenti come ad uso «sicuro», «moderato» o «ristretto», sollecitandone così la revisione da parte dello staff.

I membri tedeschi di Flickr si trovano così a condividere con Cina, Honk Kong, Singapore e Corea il triste destino di utenti «minorenni», esclusi dall’accesso a una grossa fetta del materiale postato da loro stessi e dagli altri membri, come quelle raffiguranti corpi nudi o altre scene valutate come «adatte a un pubblico adulto». Il dissenso dei membri si è organizzato nei forum interni, promuovendo diverse pratiche di protesta e reazione, rivendicando il diritto di utenti paganti ad accedere a tutti i contenuti. A fronte della protesta, del resto, gli amministratori hanno avuto ben poche possibilità di intervenire, essendo divenuti proprietà di Yahoo ! proprio pochi giorni dopo la costituzione della cordata per la «sicurezza» formata da Yahoo ! stessa insieme a MSN Deutschland, AOl Deutschland, Google e Lycos, intrapresa come mossa preventiva di ulteriori restrizioni legali, temute da quando l’UE ha iniziato a esercitare pressioni sugli stati e sulle imprese per coordinare una politica comune di filtraggio.

Dal 7 giugno scorso, Flickr risulta parzialmente navigabile in gran parte della Cina: in quasi tutto il territorio cinese risulta impossibile visualizzare le immagini presenti su Flickr, oppure inserire nuovi contenuti testuali o visualizzare quelli più recenti. Il personale tecnico del portale ha escluso che il problema sia dovuto a ragioni tecniche interne. John Kennedy, su Global Voices, ha spiegato che la causa di quanto accaduto sarebbero Lian Yue e Bullog, giornalista e blogger cinesi che da soli portavano avanti una campagna di informazione sulle manifestazioni di protesta che si stavano svolgendo nella regione di Xiamen. È possibile che c’entrino qualcosa anche le decine di immagini riguardanti gli avvenimenti di Piazza Tiananmen, moltiplicatesi in occasione dell’anniversario dei fatti del 1989, che raccontano una verità diversa da quella ufficiale e poco gradita alle autorità cinesi.

La blogosfera si è riempita velocemente di interventi polemici contro questa “purificazione”: molti anche i consigli su come aggirare la “Grande Muraglia” virtuale che circonda la Cina, attraverso interessanti estensioni per Firefox. Una in particolare è diventata una specie di punto di riferimento per la libertà di navigare ovunque: si tratta di “Access Flickr !”, sviluppata da Hamed Saber per scavalcare un blocco analogo a quello cinese messo in atto dal governo iraniano. L’estensione si installa facilmente e consente di fruire liberamente e senza alcuna restrizione dell’intero portale. Lo stesso Saber si è dichiarato disposto ad aiutare la comunità cinese di Flickr per agevolare l’introduzione del suo plugin, raccogliendo il plauso della rete dei blogger. Esistono anche altre soluzioni che permettono di scavalcare il blocco, ma nessuna è così semplice da usare come Access Flickr !.

La vicenda di Flickr ha portato alla luce un tipo di censura, occulta e silenziosa, cui ci troveremo di fronte sempre di più negli anni a venire, difficile non solo da eludere, ma anche da riconoscere, operata soprattutto sulle immagini.

Il presidente nord-coreano Kim Jong-II, paladino della censura dei media, ha spiegato di essere un “esperto di Internet”. Lo ha dichiarato, riportano le cronache, nel corso di un incontro tra le due Coree, spiegando che, proprio in qualità di esperto, lui sa che è meglio non diffondere l’accesso ad Internet. "Molti problemi emergerebbero – ha affermato il dittatore – se Internet fosse connessa ad altre parti del Nord". Come noto, in Corea del Nord, paese considerato nemico di Internet da Reporters sans Frontieres, esiste un sistema di connettività telematico, una sorta di intranet governativa, strettamente controllato, sul modello del “Great Firewall of China”, al quale non tutti possono accedere.

Un altro dei principali nemici di Internet, la Siria, è tornato a far parlare dei suoi filtri per la censura di stato: il firewall governativo ha messo fuorigioco una decina di siti che si battono per i diritti civili o blog che ospitavano articoli troppo generosi verso i valori democratici. Come riportato da Agence France-Press, tra i siti bloccati vi sono anche quelli di organizzazioni giornalistiche che hanno sede in Arabia Saudita e in Libano. In Siria, d’altro canto, i siti bloccati sono davvero numerosi, conseguenza dei timori pubblicamente espressi dal presidente-dittatore el-Assad, che ritiene la grande rete internazionale uno strumento capace di distruggere la società siriana.

Il Governo svedese se l’è presa invece con ThePirateBay.org, accusato di essere un sito pornopedofilo: i provider del paese sono stati invitati ad impedire che i propri utenti abbiano accesso a quelle pagine. Il Partito dei Pirati locali ha denunciato l’apparizione di una pagina di blocco sui computer di molti utenti svedesi che, nel tentare di accedere al sito della Baia, si sono visti annunciare la presenza di un sito pedopornografico (i promotori del sito, in nome della libertà di espressione, avevano annunciato l’intenzione di ospitare un forum sulla pedofilia). Secondo i pirati, questi filtri antipedofilia in Svezia sono stati proposti dal Governo: ai provider sta decidere se accettarli o meno. Inoltre, la Baia è già stata filtrata ingiustamente in questo stesso modo in passato e sempre dallo stesso ufficio di polizia, che vorrebbe attivare un blocco contro la Baia qualora “quei contenuti rimangano disponibili online”.

In India, la frangia estremista di un partito Hindu di destra, denominata Bharatiya Vidyarthi Sena, ha chiesto pubblicamente ai proprietari di Internet Cafe e postazioni pubbliche di impedire la navigazione di “Orkut” la popolare piattaforma di Google dedicata al social networking e al dating online. Secondo l’organizzazione, di ispirazione nazionalista, Orkut verrebbe sfruttata per diffondere false notizie sulla nazione indiana e sulla comunità Hindu in particolare, minacciando l’armonia del paese. Il sito è visto come uno dei mezzi che causerebbe la diffusione dei cattivi costumi occidentali, a scapito della cultura e delle tradizioni locali. “Stiamo dicendo gentilmente ai proprietari degli Internet Cafe che è loro compito vigilare sui navigatori affinché non alimentino questa campagna di odio”, ha detto Abhijit Phanse, portavoce dell’organizzazione, “o saremo costretti a fare questo lavoro per loro”, ha concluso. In precedenza, alcuni attivisti avevano preso di mira con atti vandalici alcuni Internet Point, ritenuti colpevoli di permettere l’utilizzo di Orkut.

Come già segnalato da Amnesty International, Le Internet company occidentali si trovano intrappolate in un atroce dilemma: collaborare con le autorità locali per attuare forme di censura mirata, o affrontare i rischi di una più coraggiosa libertà di espressione ? In ballo, c’è un mercato potenziale di oltre due miliardi di individui.

Secondo Google, la net company che ha nel suo cuore il motore di ricerca delle informazioni più usato dagli utenti di Internet, occorre equiparare il controllo preventivo dell’accesso ai contenuti ad un problema di natura meramente economica: essendo la fruibilità globale delle risorse web il punto cardine dell’ecosistema (economico, sociale e informativo) di rete, suggerisce BigG, l’atto di scaricare da un sito straniero equivale ad una vera e propria importazione, e qualsiasi ostacolo a questa possibilità è un problema di tipo commerciale e va quindi ascritto all’Office of the United States Trade Representative.

L’impiego crescente della censura telematica mette a repentaglio la libertà di espressione e di accesso alle informazioni tanto quanto il rodato sistema di advertising discreto che fa incassare a BigG la stragrande maggioranza dei suoi lauti introiti. “È pacifico che la censura sia in assoluto la barriera principale per il commercio che ci ritroviamo a dover affrontare”, ha dichiarato Andrew McLaughlin, direttore della policy pubblica e degli affari governativi per Google, che ha incontrato diverse volte durante l’anno gli ufficiali dell’USTR per discutere il problema. “Se i regimi di censura creano barriere al commercio in violazione dei trattati internazionali – ha sostenuto per tutta risposta Gretchen Hamel, portavoce dell’organismo di controllo USA – l’USTR dovrebbe interessarsene”. Hamel ha tenuto poi a sottolineare come problemi inerenti ai diritti civili siano generalmente di competenza del Dipartimento di Stato piuttosto che di un’organizzazione dedita al commercio come l’USTR.

Le manovre di Google sono perfettamente in linea con il suo rinnovato interesse per le sfere di potere tradizionali, quelle “off-line” del parlamento federale degli States. Nel mentre, fuori dalle aule decisionali, le organizzazioni pro-diritti digitali sembrano ben accogliere gli sforzi di BigG contro la censura telematica nel suo complesso, per quanto ne sottolineino i principi di natura squisitamente commerciale piuttosto che etico/morale. “La libera espressione è un bene commerciabile di notevole valore”, osserva Danny ÒBrien, coordinatore internazionale per Electronic Frontier Foundation. I filtri di stato non fanno altro che impoverire tale valore, diminuendo quindi l’appeal dei servizi forniti da Google per gli utenti che si trovano a dover fruire la Rete dietro i bavagli della censura di stato.

Quel che è chiaro, è che Internet sta cambiando volto, dominata sempre più da quello che Amnesty definisce “modello cinese”: una Rete che traina una crescita economica dai ritmi vertiginosi, ma che, con il crescere della sua popolarità, viene progressivamente strangolata dal volere dei governi. Interessati a difendere la propria reputazione e a non spezzare il silenzio che i cittadini e i media riservano loro rifugiandosi nell’autocensura; per non dissipare la cortina di ignoranza che aleggia attorno al proprio operato, i governi filtrano le informazioni e instaurano un regime di sorveglianza elettronica.

Lo ha confermato, di recente, anche un report di Open Net Initiative: la censura governativa opera in almeno 26 stati, dalla Bielorussia alla Tunisia, dalla Thailandia all’Iran. Senza contare l’Occidente, escluso dal report solo per le motivazioni che spingono alla selezione dei contenuti online, da noi più di impronta sociale che politica. Fa riferimento a tecniche subdole come il filtraggio, ma anche a operazioni alla luce del sole, come la limitazione dell’accesso agli Internet café, l’oscuramento di siti, l’arresto di coloro che, come il blogger egiziano Kareem Amer, trovano in Rete spazio e visibilità per denunciare le brutture del proprio paese.

La situazione non può che involvere nel momento in cui le imprese, desiderose di conquistare mercati in espansione, decidono di affiancarsi ai governi e di scendere a patti, sovrapponendo complicità politiche ad interessi commerciali. A questo proposito Amnesty aveva già invocato l’intervento degli ISP, invitandoli a sostenere dal basso la causa dei diritti umani e della libertà di espressione in Rete, nel momento in cui le grandi aziende, nonostante vacue promesse di codici di condotta, sembrano preferire supportare la proficua causa dei governi. Sono infatti note le collusioni di big player della rete con il governo cinese, considerato il vertice della censura online: Cisco e Google, fra mea culpa e richiami all’ordine da parte degli azionisti, hanno collaborato a filtrare e selezionare ciò che si pone al di là della grande muraglia digitale; Yahoo ! pare abbia supportato il governo della Repubblica Popolare consentendo di rintracciare ed arrestare un dissidente. Meno nota la questione sollevata da New Scientist, su cui ha richiamato l’attenzione Reporters sans frontieres: grandi nomi dell’industria occidentale starebbero lavorando, proprio in Cina, ad un software per la profilazione “profonda” dei netizen. Utile a scopi commerciali, potrebbe essere sfruttato per individuare gli elementi sovversivi, a partire dalle tracce lasciate dalle loro abitudini online.

Amnesty si è schierata in più occasioni a favore della libertà di espressione in Rete: ultima la web conferenza tenuta nel contesto della campagna “Irrepressible”, che ha da poco compiuto un anno. La Rete sta cambiando volto, mutilata dalle cause commerciali e da governi che temono di perdere il controllo dell’informazione, ma anche da quella che si configura spesso come una scrematura demagogica. Avverte Hancock: “Ora accendiamo il computer dando per scontato che quello che vediamo è tutto ciò che esiste online. Temiamo che in futuro sarà possibile accedere solo a ciò che qualcuno riterrà opportuno lasciarci vedere”.

GUIDA ANTI-CENSURA
Punto Informatico (17 ottobre 2007)

La guida anti-censura stilata dal CitizenLab dell’Università di Toronto può rivelarsi un utile manuale delle istruzioni. Segnalato da Ars Technica, il “manuale” di CitizenLab si propone come un prontuario per aggirare blocchi e per rendersi anonimi in rete, rivolto ai cittadini dei paesi i cui governi tentano di scoraggiare ogni consapevole partecipazione alla società civile. Paesi che, mostrano le mappe di Open Net Iniziative, hanno alle spalle una lunga tradizione censoria, spesso supportata da “censorware” che proviene da stati insospettabili, pseudo-garantisti.

Si comincia con un glossario, che rende accessibile il contenuto della guida anche ai netizen meno esperti; segue una presentazione dei regimi censori, e poi CitizenLab apre la “cassetta degli attrezzi”, una vasta scelta di sistemi per aggirare i filtri: più complesso è il sistema, più sono le possibilità di sfuggire a controlli e rischi, ma CitizenLab suggerisce di non strafare, scegliendo soluzioni adatte al proprio livello di competenza e tagliate su misura per ogni situazione.

Ad esempio vi sono le strategie per aggirare i blocchi imposti su determinati contenuti, quelle chiamate “circumvention technology”. Primo passo: individuare un contatto fidato e responsabile connesso da un’area non sottoposta a filtering, che possa fare da ponte per raggiungere contenuti altrimenti inaccessibili. Non si nasconde al cittadino della rete che in molti paesi questi stratagemmi possono essere illegali, così come è illegale accedere a contenuti che il governo ha ritenuto inappropriati. Al tempo stesso, CitizenLab avverte i gestori di servizi che fungono da ponte, come i server CGIProxy, psiphon o Peacefire Circumventor: fornire l’accesso a contenuti proibiti può suscitare l’ira funesta del censore.

Per chi invece non potesse fare affidamento su contatti all’estero, esistono altri sistemi per scavalcare i filtri. CitizenLab avvisa però che i proxy pubblici raccolgono una serie di dati che potrebbero tradire il netizen, disvelando al censore la sua identità. Il gruppo canadese consiglia i servizi web Proxify e Stupid Censorship,che in alcuni paesi sono stati a loro volta bloccati, o servizi di tunneling come Ultrasurf, Freegate, Global Pass o HTTP Tunnel. Non mancano nella lista nemmeno servizi che permettono di mascherare il proprio indirizzo IP, facendo rimbalzare fra numerosi intermediari il traffico scambiato: JAP ANON, Tor e I2P le soluzioni suggerite nel documento.

Esistono tuttavia delle tecniche più empiriche per aggirare la censura in rete: dalla consultazione delle pagine conservate nella cache di Google, indicizzate e salvate al di qua dei filtri, ai servizi di traduzione offerti dai motori di ricerca e agli aggregatori RSS online, che accedono alla pagina bloccata in vece del netizen. Non tutti i metodi sono efficaci ovunque: è necessario procedere per prove ed errori prima di individuare la soluzione che fa al caso di ciascun utente.

Data articolo: ottobre 2007
Fonti: l’Unità, Il Giornale (20 ottobre 2007); RAI news (19 ottobre 2007); PCworld (18 ottobre 2007); Corriere della Sera (12 ottobre 2007); Punto Informatico (7-11-25 giugno 2007, 09 luglio 2007, 9-10-11 ottobre 2007); Liberazione (17-25 agosto 2007)

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