La bellezza non basta, la musica delle parole non basta, la poesia deve anche essere “buona”, nutriente.

Se non amplia gli orizzonti di chi legge, se non porta effetti collaterali positivi nella vita di chi la frequenta può essere serenamente, beatamente dimenticata, facendo posto ad altri nutrimenti letterari più corroboranti. È una delle regole di quel decalogo implicito che connota la vita e l’opera di Margherita Guidacci, e che rende così interessanti, così concretamente “utili” i suoi saggi critici (e così belli e originali i suoi versi). Lo ha messo in luce con chiarezza Ilaria Rabatti nella documentatissima, appassionata introduzione al libro Il fuoco e la rosa. Quattro Quartetti di Eliot e Studi su Eliot (Petite Plaisance, 2006) che ripropone traduzioni e saggi tanto interessanti quanto poco noti; in due casi, pubblicati anche dal nostro giornale (Itinerario dalla terra Desolata il 21 maggio 1986 e Una Lady silenziosa e dolcissima indica la rotta ai naviganti il 26-27 settembre del 1988).

Margherita Guidacci con in braccio  sua figlia Elisa

Nei curricola vitae dei grandi scrittori ci sono spesso entusiasmi giovanili e infatuazioni letterarie destinate a non lasciare traccia. Per Margherita Guidacci, ad esempio, l’innamoramento per il cosmo simbolista è stato tanto violento quanto passeggero, una full immersion che risale al periodo degli studi universitari legata, spiega Rabatti, alla «gran mole di lavoro andata poi beatamente perduta» compiuta durante l’elaborazione della tesi di laurea su Ungaretti, assegnatale da Giuseppe De Robertis nel 1943.

In realtà, ricorda la scrittrice fiorentina nell’articolo Coscienza di un confine («Stagione, lettere ed arti», anno III, n. 11, p. 8), «la mia tesi di laurea doveva vertere sulla poesia italiana contemporanea (si era allora negli anni di guerra, in pieno rigoglio dell’ermetismo) poi per ragioni di tempo e di salute si restrinse invece al solo Ungaretti. Posso dire (…) di non avere fatto mai studi più coscienziosi. Nella fornitissima biblioteca di Giovanni Papini, in cui, per gentile concessione dello scrittore, mi recavo ogni sera percorrendo a tastoni, nell’oscuramento, il tratto fra via della Mattonaia e via Guerrazzi, il materiale non mancava davvero (…) riempivo quaderni su quaderni di appunti, inseguendo le diramazioni dalla triplice fonte di Rimbaud-Verlaine-Mallarmé, oltre alla larga arteria di Valéry, fino ai rigagnoli più capillari ed esterni, dei Ghil o dei Fabre (…) Come poi tanta mole di lavoro abbia potuto andare per me così beatamente perduta, è un altro fatto, che resta da spiegare. Ognuno di noi è naturalmente selettivo, permeabile a certe esperienze, impermeabile ad altre, indipendentemente dal tempo e dall’applicazione che vi dedica: come ogni pianta sceglie dal terreno determinate sostanze e non altre, e non cresce finché non ha trovato quelle che la nutrono».

Il decadentismo «evidentemente non mi nutriva — confessa la Guidacci — né quello di cui mi ero cibata nella biblioteca di Giovanni Papini, né quello di cui avevo osservato, con un timore reverenziale, i riflessi nella Firenze ermetica del mio tempo».

Ben più sostanziosa per la scrittrice è la poesia di Emily Dickinson, di John Donne e di T.S. Eliot, o la prosa di Ernest Hemingway e, in generale, la voce di quegli autori che sentono la necessità di una letteratura più aderente alla vita, usando magari un linguaggio meno “puro”, ma più concreto e denso di pensiero. Scrittori in cui l’impegno intellettuale è sempre sorretto da una immaginazione plastica e lussureggiante, forse più difficili da tradurre, ma sicuramente più interessanti e “nutrienti”. Il tema del nutrimento interiore che deriva dalla traduzione torna anche nell’intervista concessa dalla scrittrice a Ennio Ercoli, La coscienza e il senso dell’assoluto. «Quello della traduzione — racconta Guidacci — è stato per me un lavoro formativo, mi ha nutrita, mi ha aperto delle prospettive. Soprattutto rispetto ad Eliot per quanto riguarda quel concetto dell’intersezione dell’eterno nel tempo che venne acquisito in un momento di crisi della mia generazione e che ci ammoniva ad agire bene, distaccati dal frutto dell’azione, che richiamava il valore cristiano riproposto con voce moderna. Sì, posso dire che in quel momento la poesia di Eliot è stata un conforto infinito».

Un sollievo profondo e duraturo; un cibo per l’anima senza date di scadenza a breve termine, scaturito però da una costante, aspra battaglia con testi complessi, difficili da traslare in un altro universo simbolico.

Sui problemi della traduzione poetica la Guidacci tornerà spesso, in molti scritti e in tante interviste. «In tutte, comunque, con decisione — nota Ilaria Rabatti nella sua prefazione/saggio — afferma la strada che seguirà sino alla fine: non tradurre mai sistematicamente, ma perseguendo con paziente impegno un’ambizione di bellezza».

Una bellezza, anche qui, non fine a se stessa ma utile a uno scopo ben preciso, capace di donare al testo tradotto una nuova incarnazione, nel senso letterale (e cristiano) del termine. «Tradurre — scrive Guidacci parlando dei suoi studi su Eliot — è sempre stata per me un’esperienza molto importante. Un’esperienza che sento, in qualche modo, affine a quella creativa. Non si tratta, infatti, di travasare da una lingua all’altra, ma di far rivivere nella lingua d’arrivo ciò che era vivo e produceva effetti vitali nella lingua di partenza: arrivare, insomma, all’anima di una poesia e offrirle una nuova incarnazione. Per ottenere tale risultato si devono mettere in opera esattamente gli stessi mezzi che ci soccorrono nel creare una poesia originale; risolvere gli stessi problemi di senso, di suono, di ritmo; armarsi della stessa pazienza e capacità di attesa e, qualche volta, affrontare la stessa disperazione».

La riflessione sul testo precede, accompagna e segue sempre il duello corpo a corpo con il solenne, sentenzioso periodare del poeta di Saint-Louis. Durante il lavoro di traduzione, la Guidacci metterà mano, infatti, al saggio I Quartetti di Eliot, pubblicato sulla rivista «Letteratura» nell’ottobre del 1947.

«Fu uno dei primi se non addirittura il primo in Italia — sottolinea con legittimo orgoglio la stessa autrice — a trattare diffusamente del capolavoro eliotiano»; un testo uscito in inglese nel 1944 e conosciuto in Italia solo dopo la fine della guerra.

Ai versi di Eliot Guidacci riconosce un alto valore nutritivo, talvolta persino terapeutico, apprezzando soprattutto la poesia drammatica, nel tentativo di recuperare quella dimensione corale della poesia che nel Novecento è stata spesso trascurata.

I poeti del secolo breve, nota la scrittrice, fanno fatica a usare la prima persona plurale; perso di vista il “noi” e la dimensione epica del bene comune rischiano di affondare nelle secche di un intimismo sentimentale sterile.

Eliot, invece, nei suoi momenti più alti — come nei cori de La Rocca o nel lamento delle donne di Assassinio nella cattedrale — è capace di ricomporre «la frattura fra l’artista e il tempo».

Ed è facile allora rendersi conto di come la lirica «fra tutte le forme poetiche — scrive la Guidacci nel testo “Il pregiudizio lirico” (ampiamente citato nel saggio di Rabatti) — non solo non sia oggi la più indicata ad esprimere questa realtà, ma sia addirittura intrinsecamente la più insufficiente. Quanto era viva e operante nel primo Ottocento la spinta individualistica, tanto viva e operante è oggi l’aspirazione ad una comunità in cui l’individuo si sviluppi in armonia con gli altri, in un contemperamento di diritti e di doveri».

Al mito della solitudine dei vittoriosi o dei vinti di stampo romantico «si contrappone oggi — continua Guidacci — un desiderio di fraternità: tanto più dopo che due guerre mondiali ci hanno insegnato (specialmente la seconda) come gli uomini su questa Terra si salvino o si dannino insieme (…) È la crisi inversa, e l’alba di una fase sociale molto differente da quella su cui germinò la lirica romantica. Ed essendo una fase in cui l’uomo non è considerato isolato, ma al centro di rapporti con altri uomini, alla poesia si offrono come vie di agganciamento alla realtà molto meglio le forme pluralistiche, quali la drammatica, la satira, che non la lirica».

D’altronde, chiosa Guidacci, gli esempi positivi, anche nel tanto vituperato secolo breve, non mancano. «Se guardiamo alle direzioni più valide della poesia mondiale, vediamo come il passaggio, ad esempio, dalla lirica alla drammatica sia da più parti in atto: basterebbe ad esemplificarlo il cammino di Eliot. E oltre che da Eliot le più alte cime della poesia di questo secolo sono state, per l’appunto, toccate da un poeta anche drammatico come Federico Garcìa Lorca e da un poeta essenzialmente drammatico come Bertolt Brecht». Ciò che dà voce alle domande più autentiche dell’uomo è di per sé religioso, anche se non viene mai citata la parola Dio, ribadisce Guidacci nei suoi saggi critici. «Non comprendo come si possano contrapporre la prima e la seconda metà dell’opera di Eliot chiamando religiosa soltanto quest’ultima, da Ash-Wednesday in poi. Si integrano a vicenda come due emisferi di una medesima sfera». E il cristianesimo di Eliot, precisa la scrittrice (descrivendo, inconsapevolmente, anche la propria lotta interiore) «non ha niente dell’evasione, di un ripiego a cui l’anima si determini per sfuggire a un’intollerabile angoscia. Eliot non è giunto al cristianesimo perché stanco di una intense moral struggle abbia a un certo punto, deciso di concedersi dei bewildering minutes, un appagamento sentimentale; vi è giunto proprio al termine di quella moral struggle, accettata e combattuta fino in fondo con immenso coraggio».

di Silvia Guidi

Osservatore Romano

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