Viaggio nella storia del premio. Il Nobel per la pace: la «fabbrica» della speranza

Il «Giardino dei Nobel» al Centro del Nobel per la pace di Oslo, in Norvegia (Pescali)

Il «Giardino dei Nobel» al Centro del Nobel per la pace di Oslo, in Norvegia (Pescali)

Il 10 dicembre 1901, nello Storting, il parlamento norvegese, il fondatore e presidente della Società francese per l’arbitrato tra le nazioni Frédéric Passy e il fondatore del Comitato Internazionale della Croce Rossa Jean Henry Dunant furono insigniti del primo premio Nobel per la pace, voluto da Alfred Nobel per premiare la «persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per la formazione e l’incremento di congressi per la pace». Da allora altre 96 personalità o istituti hanno ricevuto l’ambito premio che, dal 1990, viene consegnato nella sala del comune diOslo, e che per il 2018 sarà assegnato tra pochi giorni (tra l’altro in un anno particolare, considerato che il premio per letteratura non verrà assegnato, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, a causa dello scandalo per le molestie sessuali che ha coinvolto Jean-Claude Arnault, marito di una giurata). Nel suo testamento, redatto a Parigi il 27 novembre 1895, Alfred Nobel non specificò il motivo per cui aveva scelto la Norvegia anziché la Svezia come sede per la selezione e la consegna del premio. Si sono fatte diverse congetture: la Norvegia al tempo faceva ancora parte dell’Unione Svedese e lo Storting, che gestiva in una sorta di autonomia gli affari nazionali, aveva recentemente approvato una risoluzione per appoggiare il movimento di pace internazionale e forse questo fu uno dei motivi che indusse il magnate a optare per Oslo piuttosto che Stoccolma.

Il premio per la pace essendo, tra i sei istituiti da Nobel, quello meno tecnico è, per forza di cose, anche il più controverso e soggetto a contestazioni. «La prima grande svolta» mi spiega Niccolò Sattin, coordinatore delle Pubbliche Relazioni del Nobel Peace Center di Oslo, «la si ebbe nel 1936, dopo che il comitato preposto alla scelta del laureato, assegnò il premio al pacifista e antinazista tedesco Carl von Ossietzky, allora detenuto nel campo di concentramento di Esterwegen. Hitler si infuriò così tanto che vietò ai cittadini tedeschi di accettare ogni altra onorificenza data dall’istituzione». Da allora i cinque membri del Comitato per il Nobel Norvegese preposti a scegliere e assegnare il premio Nobel non devono ricoprire alcuna carica governativa e, dal 1977, neppure parlamentare, sebbene vengano scelti dallo Storting stesso. Oggi il comitato è formato dal filosofo e scrittore Henrik Syse, dall’antieuropeista Anne Enger, dall’analista e giornalista Asle Toje, dal discusso segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjørn Jagland e dall’avvocatessa Berit Reiss-Andersen, presidente del comitato e membro della DLA Piper, lo studio legale che ha co-finanziato la campagna elettorale di Obama nel 2012.

Sono queste cinque figure che accolgono, entro il 31 gennaio, la lista dei nominativi proposti alla candidatura, i cui bandi vengono aperti a chiunque da settembre dell’anno precedente. Durante il primo incontro ciascun membro del comitato può aggiungere altri candidati. Tutti i nominativi proposti rimangono segreti per 50 anni. Entro la fine di aprile il Comitato per il Nobel Norvegese, assieme ad esperti internazionali, esamina ciascuna proposta sino a raggiungere una lista di 20-30 candidati da cui, all’inizio di ottobre verrà annunciato il vincitore (o i vincitori, sino ad un massimo di tre) che verrà premiato il 10 dicembre con un premio di 870.000 euro. Quest’anno sono giunte 331 candidature (216 individuali e 115 organizzazioni). «Sino al 1960 tutti i premi sono stati assegnati a personalità del mondo occidentale» spiega Niccolò; «Il primo Nobel per la pace assegnato ad un africano fu dato a Albert John Lutuli, presidente dell’African National Congress. È stata questa la svolta che ha portato il Premio Nobel a divenire un premio veramente di portata mondiale». Il prestigio che accompagna il premio ha reso sempre più difficile il lavoro dei cinque componenti del comitato che si trova quasi ogni anno a dover scartare decine di curriculum che potrebbero soddisfare le richieste fatte dal fondatore. Il comitato, ad esempio, non assegnò mai il Nobel a Gandhi, «la più grande omissione nei nostri 106 anni di storia» ebbe a dire nel 2006 Geir Lundestad, allora direttore dell’Istituto Nobel Norvegese.

Ma non sono tanto le candidature scartate a sollevare polemiche, quanto la scelta finale, spesso dettata da ragioni chiaramente politiche. Il premio dato ‘sulla fiducia’ ad Obama nel 2009, ad esempio, è stato uno dei più contestati e, alla fine, l’ennesima dimostrazione di quanto fragile sia l’obiettività e la lungimiranza del comitato per il Nobel. Così come quello dato nel 1989 al Dalai Lama, un chiaro monito inviato a Pechino contro la repressione di Tienanmen o quello, altrettanto contestato, concesso nel 1973 a Henry Kissinger e a le Duc Tho, rifiutato da quest’ultimo in polemica per le continue violazioni del trattato compiute dal governo Sud Vietnam con l’appoggio statunitense. L’attribuzione del premio a Arafat, Peres e Rabin nel 1994 portò alle clamorose dimissioni dal Comitato per il Nobel di Kåre Kristiansen in protesta con il conferimento della laurea a Arafat, considerato da Kristiansen un terrorista.

Non mancano premi Nobel contraddittori, come quello assegnato nel 2017 all’ICAN (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari) preceduto, nel 2005, da quello conferito all’IAEA, l’Agenzia internazionale per l’energia nucleare. Un’altra grave limitazione è che il Premio Nobel per la Pace, una volta concesso, non può più essere revocato; la valutazione fatta dal comitato si limita sino al conferimento del premio. Non c’è nessuna clausola che obblighi il laureato a continuare il processo etico e morale che lo ha reso degno della fiducia. Le 400.000 firme che, nel settembre 2017 hanno chiesto al Comitato del Nobel di revocare il premio conferito nel 1991 ad Aung San Suu Kyi per la sua responsabilità delle violenze nei confronti dei rohingya e dei kachin in Myanmar, rimarranno quindi lettera morta.

Per contro, il comitato ha dato anche importanti segnali di solidarietà a nascenti movimenti di protesta o a singole personalità del mondo della cultura. Nel 1996 il vescovo di Dili, Carlos Felice Ximenes Belo e il rappresentante del Fretilin José Ramos-Horta ebbero l’ambito riconoscimento che aiutò il movimento nazionalista est timorese a raggiungere l’indipendenza, mentre nel 2010 fu lo scrittore Liu Xiaobo, co-autore della Carta 08, ad essere premiato suscitando, ancora una volta, le vivaci proteste del governo cinese che arrivò a minacciare di rompere le relazioni diplomatiche con la Norvegia. Importante, e anche uno dei pochi premi che han trovato ampio consenso internazionale, la scelta caduta nel 2014, sulla diciassettenne Malala Yousafzai, la più giovane laureata della storia del Nobel, e Kailash Satyarthi «per la loro battaglia contro lo sfruttamento dei bambini e il loro diritto di avere un’istruzione». Ed è forse questo il principale compito del premio Nobel per lapace: dare una speranza concreta al futuro di chi ha perso la fiducia nel proprio domani.

da Avvenire

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