Preti sposati è solo una questione teologica

Dio chiama al sacerdozio sia celibi sia sposati
 
di Basilio Petrà*
 
Dal 24 al 26 marzo si è tenuto a Roma il convegno nazionale dei preti sposati, indetto dall’associazione “Vocatio”, intitolato: “Preti sposati per una Chiesa in cammino”. Tre i relatori principali: Adriana Valerio, Giovanni Cereti e Basilio Petrà, di cui pubblichiamo il testo dell’intervento: “Verso un presbiterato celibatario e uxorato in tutta la Chiesa cattolica” (red.). 
 
Quello che oggi dirò nasce da un’intenzione precisa: dimostrare che sono maturi i tempi teologici e in generale ecclesiali perché si passi al riconoscimento formale che il Signore chiama tanto uomini celibi quanto uomini sposati all’esercizio del ministero presbiterale in tutta la Chiesa cattolica e che ogni Chiesa della comunione cattolica dovrebbe operare coerentemente con tale riconoscimento. 
Sottolineo subito il mio punto di vista: la questione del clero sposato non è una questione sociologica né un problema di migliore utilizzazione delle risorse umane nella Chiesa, essa è innanzitutto una questione teologica. Ciò significa che ha questa forma: il Signore chiama anche uomini sposati all’esercizio del ministero ordinato nella Chiesa oppure no? Se infatti il Signore fa questo, allora la Chiesa può solo accogliere questo dono di Dio e non rigettarlo.
 
Per poter dimostrare che è così, tuttavia, fin dall’inizio devo ricordare a tutti voi una verità elementare quanto regolarmente trascurata. 
La Chiesa cattolica è una comunione di circa ventidue Chiese tutte di proprio diritto (sui iuris). Una di esse è la Chiesa di rito latino; ci sono poi sono numerose Chiese di rito orientale, quelle che hanno origine dalle tradizioni alessandrina, antiochena, armena, caldea, constantinopolitana.
 
La struttura comunionale della Chiesa cattolica è resa evidente in particolare anche dal fatto che non ha un solo codice di diritto canonico ma due codici, uno per la Chiesa di rito latino (CIC) e uno per le Chiese orientali (CCEO), ambedue dotati della stessa dignità e sanzionati dalla stessa autorità. La dualità dei codici è dovuta al fatto che, pur nell’unità della fede, tra le diverse Chiese in comunione ci sono diversità disciplinari, liturgiche, spirituali, teologiche. 
 
Questa peculiare struttura comunionale determina un fatto di grande rilievo: un’affermazione può essere detta rappresentativa della comunione cattolica solo se esprime una realtà condivisa nell’intera esperienza delle Chiese della comunione cattolica e può essere detta d’interesse cattolico solo se riguarda l’intera comunione cattolica. Altrimenti non può essere detta adeguatamente cattolica ma solo propria di una Chiesa sui iuris o concernente solo una o più Chiese di proprio diritto. Ovviamente, il presupposto essenziale di questa comunione tra le Chiese è che non può darsi contraddizione teologica tra le particolarità proprie delle singole Chiese.
 
La Chiesa cattolica, come ben sappiamo, ha un centro visibile di unità. E’ il centro costituito dal ministero petrino esercitato dal vescovo di Roma, che nell’esercizio di tale diaconia apostolica viene coadiuvato dalle congregazioni e dagli organismi di Curia. Il principio che abbiamo sopra ricordato vale tanto per il ministero petrino quanto per la curia. Se parlano di qualcosa che non riguarda l’intera Chiesa cattolica parlano come espressione di una Chiesa sui iuris, fosse anche solo quella latina.
 
Vi prego di tenere presente questo principio perché nelle considerazioni che seguono ricorderò alcune circostanze nelle quali emerge chiaramente che le congregazioni romane continuano ancora ad operare come se chiesa latina e Chiesa cattolica si identificassero semplicemente, anche se piccoli segni di cambiamento cominciano a farsi strada. 
 
Un’accettazione ufficiale, meno nella prassi
La Chiesa cattolica nella sua cattolicità ha due forme di clero, quella celibe e quella uxorata, ne accetta pienamente l’esistenza e la considera del tutto legittima. Si tratta di un fatto oggettivo evidente. Non considero qui il diaconato – sul quale non c’è contestazione (quasi del tutto) –, ma solo il presbiterato.
 
Infatti, tutte le Chiese orientali cattoliche (escluse le due Chiese indiane: siro-malankarese e siro-malabarese, almeno nell’attuale disciplina) hanno le due forme di clero, celibe e uxorato. La larga maggioranza del clero parrocchiale in tali chiese è uxorato.
 
Inoltre, la stessa Chiesa latina ha le due forme di clero. Si sa che in casi eccezionali (ma non rari) si accolgono ministri uxorati provenienti da altre confessioni cristiane e che qualora non siano stati validamente ordinati vengono ordinati ex novo da vescovi cattolici, rimanendo sposati e senza alcun cambiamento nella disciplina della loro vita coniugale.[1] 
Dunque, i due tipi di clero oggi sono cattolicamente accettati come vere, legittime, valide forme di clero.
 
Sottolineo, l’accettazione ufficiale è indubbia. Ciò non toglie che sia ancora di fatto contraddetta a livello della concreta prassi ecclesiale cattolica ed anche nell’esercizio concreto dell’universale attività pastorale della chiesa. In altre parole, tutti gli organi che articolano un servizio cattolico nella Chiesa sembrano ancora muoversi prevalentemente su una linea che contraddice tale coscienza cattolica.
 
Ci sono cose che tutti conosciamo, come la grande difficoltà incontrate dalle Chiese orientali cattoliche per ottenere che i loro fedeli fossero seguiti nella diaspora da ministri uxorati delle loro Chiese o la difficoltà di collocare il clero uxorato nei sistemi di remunerazione del clero in vari paesi, compresa l’Italia.
 
L’acme della contraddizione a parer mio si è raggiunto nei due Sinodi sulla famiglia del 2014 e del 2015. Non sono state prese in considerazione le famiglie sacerdotali cattoliche né il clero uxorato orientale. L’unico prete orientale chiamato a far parte dei sinodali è stato un prete copto cattolico celibe.
E’ stato l’acme della contraddizione de facto.
 
 
Forse, dico forse, sta cominciando un cammino diverso. Lo dico perché verso la fine del secondo Sinodo ci sono state alcune reazioni da parte orientale, specie dopo un mio intervento sul blog L’Indice del Sinodo (Famiglie dimenticate, sposi assenti), e forse si deve a tali reazioni che Amoris laetitiaè diventato il primo documento cattolico di altissimo livello magisteriale e pastorale che invita cattolicamente a valorizzare una qualche competenza dei “preti sposati”. Penso che conosciate bene questo testo ma è opportuno richiamarlo.
 
Si trova al n.202 di Amoris laetitia e così suona: “«Il principale contributo alla pastorale familiare viene offerto dalla parrocchia, che è una famiglia di famiglie, dove si armonizzano i contributi delle piccole comunità, dei movimenti e delle associazioni ecclesiali». Insieme con una pastorale specificamente orientata alle famiglie, ci si prospetta la necessità di «una formazione più adeguata per i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose, per i catechisti e per gli altri agenti di pastorale». Nelle risposte alle consultazioni inviate a tutto il mondo, si è rilevato che ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie. Può essere utile in tal senso anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati”.
 
Il riferimento è chiaramente aggiunto a posteriori, dal momento che non si capisce bene se si vuole dire che anche i sacerdoti sposati hanno dovuto ricevere o ricevono una formazione adeguata, oppure se s’intende dire che essi possono aiutare i celibi e gli altri ad avere una formazione adeguata, con la loro esperienza, ovvero come esperti della vita familiare. Probabilmente s’intende dire la seconda cosa. Certo, non è molto.
 
Tuttavia si dicono implicitamente alcune cose significative: primo, che sono veri sacerdoti (sono così chiamati infatti); secondo, che l’esperienza di vita che hanno consente loro di capire meglio la condizione coniugale e familiare; terzo, la loro disciplina ha a fondamento una tradizione di lunga durata. Si sarebbe potuto valorizzare di più il ruolo delle famiglie presbiterali ma sarebbe stato chiedere troppo. Piccolo segno di svolta, ma forse vero segno di svolta. 
 
Basandosi sul Concilio
Questa odierna accettazione cattolica ufficiale della duplice forma di clero non è il frutto del caso o di pure dinamiche di politica ecclesiastica, ma è il risultato prima di una consolidata tradizione anche latina concernente il rapporto tra matrimonio e ministero ordinato, quindi di alcune decisioni disciplinari preconciliari fatte proprie dalla diaconia pastorale petrina nella Chiesa cattolica, infine della dottrina conciliare del concilio Vaticano II.
 
Non potendo trattare qui formalmente e pienamente questo discorso mi limiterò a ricordare alcune affermazioni conciliarmente fondate delle quali offro la prova nei miei libri, ai quali rimando:[2]
1) Non è più legittimo rimanere legati a una visione preconciliare del sacerdozio uxorato, come “condizione giuridicamente tollerata”. Tale visione è preconciliare nel senso preciso che non corrisponde più all’autocoscienza della Chiesa in questo momento e alla sua autoproiezione nel futuro. Si veda quello che ha detto lo stesso card. Sandri, prefetto della Congregazione delle Chiese orientali, nella conferenza che tenne al Pontificio collegio Pio Romeno il 18 aprile 2013 sul tema: “Il Concilio e gli orientali”.[4]
 
2) Per il Concilio il sacerdozio uxorato è vero sacerdozio al pari di quello celibatario; all’uno e all’altro si applica tutto quello che vale del vero sacerdozio in generale. Tutto quello che si dice del sacerdozio in quanto tale, come essenza e funzioni, vale per l’una e per l’altra forma di sacerdozio. Il sacerdozio ministeriale infatti non è connesso per sua natura né con il celibato né con il matrimonio, ma può associarsi all’una o all’altra condizione, secondo la volontà del Signore e il discernimento della Chiesa.
 
3) Per il Concilio, proprio perché è vero sacerdozio ministeriale, il sacerdozio uxorato nasce da una divina chiamata confermata dalla Chiesa, al pari della chiamata al sacerdozio celibatario. E’ anch’essa “santa vocazione”. Uso la dizione “santa vocazione” per indicare la vocazione ministeriale perchéPresbiterorum ordinis al n. 16 la richiama in modo formale con riferimento al clero uxorato così come dice chiaramente che il sacerdozio uxorato è una forma di piena dedizione della vita al gregge.
 
Si legge infatti nel primo paragrafo di quel numero 16:” La perfetta e perpetua continenza per il regno dei cieli, raccomandata da Cristo Signore nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni gioiosamente abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale. Essa è infatti segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale, nonché fonte speciale di fecondità spirituale nel mondo. Essa non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese orientali, nelle quali, oltre a coloro che assieme a tutti i vescovi scelgono con l’aiuto della grazia il celibato, vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati: per questo il nostro sacro Sinodo, nel raccomandare il celibato ecclesiastico, non intende tuttavia mutare quella disciplina diversa che è legittimamente in vigore nelle Chiese orientali, anzi esorta amorevolmente tutti coloro che hanno ricevuto il presbiterato quando erano nello stato matrimoniale a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosità la propria vita per il gregge loro affidato(mio grassetto)”.
 
4) Conciliarmente parlando, la distinzione tra le due forme dell’unico sacerdozio non risiede nel ministero sacerdotale in quanto tale (ovvero nella natura del sacerdozio) ma nella condizione esistenziale diversa nella quale sono chiamati a vivere il sacerdozio coloro che ricevono la santa vocazione. 
Tutto questo fa parte delle acquisizioni conciliari, pienamente riprese successivamente nel CCEO.
 
Il silenzio nei testi ufficiali
Proprio perché il ministero uxorato nasce da una santa vocazione ovvero da una vocazione divina riconosciuta dal discernimento della Chiesacattolicamente vale l’affermazione che il ministero ordinato uxorato è uno degli stati di vita ai quali il Signore può chiamare.
 
Questo punto può essere meglio illustrato richiamando quello che leggiamo in un recente documento legato a un grande avvenimento della Chiesa che sarà il Sinodo sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale del 2018. Se andiamo infatti a vedere il Documento preparatorio e il questionario pubblicato nel gennaio di quest’anno al punto II,2 ove si parla del discernimento vocazionale, vi leggiamo: “Tenendo presente ciò, ci concentriamo qui sul discernimento vocazionale, cioè sul processo con cui la persona arriva a compiere, in dialogo con il Signore e in ascolto della voce dello Spirito, le scelte fondamentali, a partire da quella sullo stato di vita. Se l’interrogativo su come non sprecare le opportunità di realizzazione di sé riguarda tutti gli uomini e le donne, per il credente la domanda si fa ancora più intensa e profonda. Come vivere la buona notizia del Vangelo e rispondere alla chiamata che il Signore rivolge a tutti coloro a cui si fa incontro: attraverso il matrimonio, il ministero ordinato, la vita consacrata? E qual è il campo in cui si possono mettere a frutto i propri talenti: la vita professionale, il volontariato, il servizio agli ultimi, l’impegno in politica?”.
 
I tre stati di vita (matrimonio, ministero ordinato, consacrazione religiosa) sono dati per paralleli e separati tra loro in quanto stati di vita. Ciò non corrisponde alla realtà ecclesiale cattolica. 
Il presupposto infatti è che non si possa dare una chiamata al ministero ordinato uxorato: tale presupposto non è corretto dal punto di vista cattolico proprio per i motivi che abbiamo sopra ricordato. Dal momento, infatti, che le due forme di ministero, celibe e uxorato, sono vere, legittime, pienamente accettate vocazioni divine nella Chiesa cattolica, ambedue le due forme devono essere prese in considerazione in tutti i documenti di valore cattolico.
 
Ciò è tanto più necessario in questo momento nel quale si danno comunità cattoliche di rito orientale in moltissimi paesi nei quali tradizionalmente non esistevano. Tanto la pastorale vocazionale quanto la cura delle vocazioni – nella loro forma cattolica – devono tener conto di questa dualità delle forme esistenziali dello stesso sacerdozio ministeriale, se vogliono essere coerentemente cattoliche.
 
Un limite analogo appare anche in un documento così importante come laRatio fundamentalis institutionis sacerdotalis pubblicato l’8 dicembre 2016 dalla Congregazione per il clero, sotto la presidenza del card. Beniamino Stella, con il titolo Il dono della vocazione sacerdotale.
 
Ebbene, il documento dichiara esplicitamente che quanto dice non si applica alle chiese orientali cattoliche le quali in questa materia “devono preparare le loro norme, a partire dal proprio patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare” (Il dono della vocazione sacerdotale, Norme generali, 1) e quando prende in esame il caso in cui ci siano seminari latini con presenza simultanea di seminaristi orientali, al n. 110, si preoccupa di precisare: “Nel caso che nei seminari latini vengano ammessi seminaristi delle Chiese orientali cattoliche, per quanto riguarda la loro formazione al celibato o al matrimonio siano osservate le norme e le consuetudini delle rispettive chiese orientali”. 
 
Non si può non notare che questa forma di apparente rispetto delle tradizioni orientali si capovolge de facto in una sorta di collocazione di tali tradizioni in riserve di tipo indiano, come se la visione cattolica fosse un altro mondo. 
Così nel numero stesso – il 110 – nel quale con le poche parole surricordate (nemmeno 1 rigo su 29 di testo; 1 rigo di nota su 19 di note) si accenna ai seminaristi cattolici che sono formati al matrimonio e che possono essere nello stesso seminario con seminaristi formati al celibato si dedicano molte parole e molte citazioni a parlare del significato spirituale e pastorale del celibato latinoe nessuna parola al significato spirituale e pastorale del ministero uxorato.
 
Si noti: si tratta di un documento cattolico nel quale si è consapevoli che ci sono seminaristi cattolici che vengono formati al celibato e seminaristi cattolici che vengono formati al matrimonio. Eppure mentre per gli orientali si rinvia alle loro Chiese senza dire cattolicamente nulla, ci si sofferma invece ampiamente a legittimare la disciplina della Chiesa latina – esplicitamente ricordata come “Chiesa latina”- affermando la speciale convenienza della “continenza perfetta nel celibato” come “segno di [questa] dedizione totale a Dio e al prossimo”.
 
Ci si può chiedere perché una Congregazione cattolica dedichi tanto spazio a sottolineare il valore speciale della prassi celibataria latina che è prassi solo di alcune chiese cattoliche e perché non dica nulla sul valore di segno di dedizione a Dio e alla Chiesa proprio del sacerdozio uxorato nella maggior parte delle Chiese appartenenti alla comunione cattolica?
 
O si ritiene ovvio tale valore teologico ordinario e generale del sacerdozio uxorato, non da sottolinearsi particolarmente, e si pensa che nella chiamata celibataria ci sia solo una speciale sottolineatura di quel carattere della dedizione alla Chiesa che è proprio di ogni sacerdozio cattolico; oppure si ritiene che soltanto nella chiamata al sacerdozio continente nel celibato ci sia una vera e adeguata dedizione alla Chiesa.
 
Se è corretta la prima interpretazione allora lo si dica formalmente e si dica che ogni ministero ordinato cattolico è segno della dedizione piena a Dio e alla Chiesa, uxorato o celibatario che sia; se si intende la seconda, si è in una posizione che con corrisponde al Concilio e alla prassi di gran parte delle Chiese cattoliche, per non ricordare la testimonianza delle Chiese ortodosse. 
 
Viene il fondato sospetto che le Congregazioni romane siano ancora troppo abituate a operare con una mentalità solo latina, ovvero non siano ancora adeguatamente cattoliche. Esse sembrano continuare a operare identificandonaturalmente tradizione cattolica e tradizione latina, ovvero ritenendo ancora la praestantia o superiorità preconciliare del rito latino, come se solo il rito latino possedesse la ‘piena’ verità del ministero ordinato.
 
Questo modo di porsi ha ultimamente effetti negativi sulla capacità stessa della Chiesa latina di corrispondere ai doni di Dio in rapporto alla sua stessa vita. Per chiarire questo punto vorrei venire a una quarta considerazione. 
 
Una Chiesa cattolica 
La storia della Chiesa latina dimostra che, pur essendoci stati molti tentativi in questo senso, mai si è posta la condizione coniugale come impedimento intrinsecamente dirimente della validità dell’ordinazione ministeriale. Si ricordi che nello stesso CIC del 1983, can. 1042, 1 si dice che lo sposato “è semplicemente impedito di ricevere gli ordini” (così anche CJC del 1917, can. 987, 2°).
 
Su questa base largamente tradizionale Pio XII ha preso alcune decisioni che hanno consentito alla Chiesa latina di aprirsi all’accoglienza dei ministri non-cattolici riconoscendo in questo una precisa volontà divina. Analoga sapienza hanno mostrato i padri conciliari accogliendo il diaconato uxorato. Paolo VI e i papi successivi – in continuità con Pio XII e alla luce del chiaro insegnamento conciliare – hanno operato un discernimento in forza del quale si prendeva atto che il Signore chiedeva alla Chiesa latina di accettare ministri uxorati o addirittura li ordinava, nel caso di conversione da confessioni non cattoliche.
 
Sottolineo questo punto: questi atti di accoglienza e ordinazione non sono stati e non sono atti di politica ecclesiastica ma atti di discernimento ecclesiale in forza dei quali si prende atto di una volontà divina per la Chiesa latina. Si poteva, ad esempio, chiedere a tali ministri o comunità di associarsi a Chiese orientali cattoliche ma non lo si è fatto.
 
Questi atti di discernimento, resi possibili dalla tradizione e dalla dottrina conciliare, sono una prova chiara che anche la Chiesa latina sa e riconosce che Dio può chiamare persone all’esercizio del ministero uxorato anche nella Chiesa latina e che in questo non c’è alcun conflitto con l’affermazione di uno speciale significato simbolico della continenza nel celibato sacerdotale, dal momento che il Signore stesso non vi vede alcun conflitto e continua a chiamare a tale ministero insieme celibi e uomini sposati nella Chiesa cattolica.
 
Il discernimento che da Pio XII è stato fatto nei confronti delle vocazioni ministeriali dei ministri in conversione dovrebbe diventare possibile anche nei confronti di uomini sposati che mostrino segni positivi di vocazione divina al ministero.
 
Si tratta di passare da una prassi certo occasionale ed eccezionale, ma fondata su un principio teologico, a una prassi che assume esplicitamente e formalmente il principio stesso, prendendone pienamente atto. 
Ciò renderebbe possibile anche per la Chiesa latina di articolare più ampiamente le forme di esercizio del ministero e di mettersi in condizione di provvedere ai bisogni sacramentali e ministeriali delle comunità (come ad esempio istituendo i presbiteri di comunità).
 
Non si vede perché dovrebbe essere scandaloso avere una Chiesa latina che come all’inizio del secondo millennio preveda comunità di presbiteri viventi la vita comune sotto una regola, presbiteri sposati rettori di comunità, monaci ordinati. Ciò potrebbe convivere, io credo, anche con una preferibilità latina tradizionale per il clero celibe e con il celibato consigliato ma non obbligatorio. 
Lex continentiae?
Dal momento che uno dei motivi che ha condotto alla normativa latina del celibato obbligatorio è stata la pratica della lex continentiae e la soggiacente visione della sessualità e del matrimonio, bisogna dire qualcosa sulla salute della quale gode oggi tale principio.
 
Per lex continentiae s’intende la legge per la quale nel primo millennio grosso modo gli uomini sposati che ricevevano gli ordini maggiori[4] s’impegnavano alla sospensione dei rapporti sessuali. Sull’origine, l’estensione, l’accettazione di tale legge ci sono dibattiti storici non piccoli.
 
In qualunque modo stiano storicamente le cose bisogna dire chiaramente che la visione conciliare e postconciliare della sessualità e del matrimonio è assai diversa da quella del primo millennio e di gran parte del secondo. 
La sessualità è parte del progetto divino dell’amore coniugale; gli atti coniugali stessi poi hanno piena dignità e significato come scrive esemplarmenteGaudium et spes, n. 49: “Questo amore [coniugale] è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall’esercizio degli atti che sono propri del matrimonio. Ne consegue che gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi”.
 
Amoris laetitia, poi, come si sa vede anche l’eros come forma nella quale prende corpo la carità coniugale. Si veda anche solo il suo n. 120.
La teologia attuale della sessualità e del matrimonio ci consente poi di dire con molta chiarezza che la condizione di vita coniugale non contraddice l’ordinazione presbiterale dell’uomo, anzi possiamo dire che l’ordinazione offre la possibilità di un qualche compimento del senso sacramentale stesso del matrimonio e della famiglia.
 
Il matrimonio, infatti, nella dottrina attuale della Chiesa quale si esprime inFamiliaris consortio e in Amoris laetitia, non è semplicemente un’istituzione naturale che riceve la benedizione divina in ordine alla procreazione e educazione della prole. E’ molto di più: è un luogo nel quale si esprime la Chiesa stessa, è una manifestazione della chiesa, è chiesa domestica. I coniugi sono ministri di un sacramento che li colloca attraverso il loro stesso amore al servizio di Dio e della Chiesa, perché sono appunto Chiesa che si realizza nella e attraverso la comunione coniugale e familiare.
 
La comunione coniugale simbolizza la totalità di relazione che lega Cristo e la chiesa e la esprime vivendo le dimensioni dell’amore coniugale in pienezza; la comunione familiare – che nasce da quella coniugale – è poi un simbolo vivo dell’amore trinitario, chiamata ad essere una comunione di vita e di amore che si apre verso gli altri, la comunità ecclesiale, il mondo. Essa partecipa al ministero profetico, sacerdotale e regale della chiesa; è e deve essere famiglia aperta, accogliente, missionaria ecc.
 
Oggi si consegna il crocifisso alle famiglie missionarie che vanno nelle missioni al servizio della Chiesa e che lasciano la loro terra, portando con sé i figli. Oggi ci sono coppie che gestiscono centri pastorali e sono al servizio pieno della comunità. E potremmo continuare. 
 
Mai come oggi diventa possibile comprendere come il matrimonio e la vita familiare non solo non contraddicono il ministero sacerdotale ma possono trovare in esso un modo in cui attuare anche il senso cristiano del matrimonio e della famiglia, la realtà di un matrimonio aperto al servizio della Chiesa e del Vangelo.
 
In altre parole, si dà una possibile continuità sacramentale tra il matrimonio cristiano e il ministero sacerdotale uxorato, proprio perché quest’ultimo può configurarsi come un peculiare modo mediante il quale la coppia/la famiglia danno attuazione alla missione profetica, sacerdotale e regale che è propria di ogni coppia/famiglia cristiana e su di essa s’innesta.
 
Ho utilizzato molto fino a qui il linguaggio della Familiaris consortio, articolato sui tria munera Christi, ma qualcosa di simile può ben essere detto anche nel linguaggio dell’Amoris laetitia che utilizza maggiormente quello della “Chiesa domestica”. La prospettiva infatti è simile e lascia intravedere allo stesso modo che non c’è alcuna contraddizione tra matrimonio/famiglia e ministero ordinato. Mi limito a richiamare un testo di Amoris laetitia, il n. 324:
“Sotto l’impulso dello Spirito, il nucleo familiare non solo accoglie la vita generandola nel proprio seno, ma si apre, esce da sé per riversare il proprio bene sugli altri, per prendersene cura e cercare la loro felicità. Questa apertura si esprime particolarmente nell’ospitalità,incoraggiata dalla Parola di Dio in modo suggestivo: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli»(Eb 13,2). Quando la famiglia accoglie, e va incontro agli altri, specialmente ai poveri e agli abbandonati, è «simbolo, testimonianza,partecipazione della maternità della Chiesa». L’amore sociale, riflesso della Trinità, è in realtà ciò che unifica il senso spirituale della famiglia e la sua missione all’esterno di sé stessa, perché rende presente ilkerygma con tutte le sue esigenze comunitarie. La famiglia vive la sua spiritualità peculiare essendo, nello stesso tempo, una Chiesa domestica e una cellula vitale per trasformare il mondo”.
 
Amoris laetitia poi insiste molto su quel che si potrebbe chiamare la struttura familiare della comunità parrocchiale e della vita ecclesiale. Si veda ad esempio Amoris laetitia, n. 202 ove è formalmente detto che la parrocchia è “famiglia di famiglie” 
 
La responsabilità della teologia
L’insieme di queste considerazioni va verso una conclusione precisa: la Chiesa cattolica sa che Dio chiama tanto uomini celibi quanto uomini sposati al servizio ministeriale. Ogni chiamata ha la sua dignità e il suo modo di esprimere la dedizione piena al servizio della Chiesa.
 
Le Chiese orientali cattoliche si muovono da sempre sulla base di questa consapevolezza; la Chiesa latina negli ultimi cinque secoli ha deciso di operare in modo diverso fino al secolo XX quando si è ricordata sempre più chiaramente che il Signore chiama anche uomini sposati all’ordine non solo diaconale ma anche presbiterale. Oggi è giunto il momento di assumere questa consapevolezza pienamente e semplicemente seguire – in questa consapevolezza odierna – la volontà del Signore.
 
La teologia ha in questo momento una grande responsabilità, specialmente la teologia del sacerdozio. Deve smettere di essere una teologia che de factotrasforma una larga parte del ministero ordinato della Chiesa in un’inspiegabile professione utile praticamente alla Chiesa e perciò tollerata per salvare la bellezza del sacerdozio celibatario e diventare finalmente una teologia fedele alla vita della cattolicità della Chiesa, mostrando la bellezza diversa e complementare nella quale s’articola la divina chiamata al ministero ordinato nella Chiesa.
in http://www.lindicedelsinodo.it/
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