Calo di fedeli a messa?

Questo suggerirebbero le sensazioni di parroci e fedelissimi ad osservare le nostre assemblee domenicali. Un articolo apparso sul Foglio di martedì 28 marzo a firma di Matteo Matzuzzi fa una lunga disamina della situazione italiana della parrocchia.
Nel 2009 il Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) effettuò un’indagine nella diocesi di Piazza Armerina i cui risultati confluirono nella pubblicazione “La Messa è finita?” curata da Massimo Introvigne e PierLuigi Zoccatelli. Quell’indagine fissava al 18,5% la percentuale di praticanti che frequentava la messa nei fine settimana. A distanza di 8 anni probabilmente la situazione è mutata in peggio.
Anzitutto dal punto di vista demografico. Il lento spopolamento dei piccoli e grandi centri a causa della crisi occupazionale ha accentuato la percezione di spazi sempre più vuoti nelle assemblee domenicali. Di certo si sono perse quasi completamente le nuove generazioni e questo non soltanto al sud ma anche nelle grandi città. Basta osservare la messa festiva trasmessa in tv per vedere una assemblea composta in gran parte da persone anziane. Ci sono cause sociali di questo, in primis il calo demografico che sta portando il nostro paese a crescita zero. E poi ci sono cause culturali ispirate a stili di vita introdotti negli ultimi decenni legati al sacro divertimento del fine settimana che trova i nostri ragazzi vagabondare per locali fino alle prime luci della domenica, magari strafatti di alcol o, peggio, di altre sostanze inebrianti. Figurarsi che importa loro della messa! E la nostra pastorale giovanile brancola nel buio. A questo si aggiunga la crisi delle vocazioni al sacerdozio e l’aumento dell’età media del clero e il quadro della situazione è completo.
Questa contrazione di presenze fa sì che per il clero sia quasi impossibile mantenere in piedi tutti i centri pastorali di cui sono ricchi i nostri antichi comuni. In tante diocesi si va nella direzione delle unità pastorali. Cito dall’articolo menzionato: “Si prenda il caso della diocesi di Torino, con dati abbastanza recenti: a fronte di 355 parrocchie sparse in 158 comuni, i sacerdoti sono 260. Ergo, 46 hanno doppi incarichi, 14 tripli, 3 quadrupli. Al 2014 – ma la situazione non è troppo mutata – mancavano all’appello 95 parroci per coprire le esigenze”.
La conseguenza è che si applicherà quanto stabilito dalla Nota pastorale della Cei “Il volto missionario delle parrocchie”, e cioè procedere con l’integrazione delle varie entità parrocchiali: “Le parrocchie non possono agire da sole: ci vuole una pastorale integrata in cui, nell’unità della diocesi, abbandonando ogni pretesa di autosufficienza, le parrocchie si collegano tra loro, con forme diverse a seconda delle situazioni”.
È la soluzione migliore? A me non piace. Nel clima campanilistico delle nostre comunità e nello stile spesso concorrenziale e poco comunionale che vige tra parroci, mi sembra un modello poco applicabile e porta a scarsissimi risultati.
Ma quali alternative si potrebbero proporre? Nessuno lo sa! Abolire le parrocchie e tornare al modello dell’unica parrocchia? Per non indulgere al pessimismo torno a citare l’articolo di Matzuzzi che lascia trasparire una prospettiva: “Il professor Borghesi è convinto che la chiave di volta per invertire la rotta possa, in qualche modo, essere rappresentata da Francesco. Non c’entrano le disquisizioni sulla contabilità delle folle osannanti, ma “il carisma di questo Pontefice, che viene dall’esperienza del cristianesimo popolare latinoamericano e che sta indicando la possibilità di un nuovo incontro tra fede e realtà popolare. Lo fa puntando sulle persone semplici, su un messaggio evangelico che va direttamente al cuore dei vicini così come dei lontani. La gente in molti casi torna a messa”. Merito di Bergoglio? “Non dico dipenda solo dal Papa, sia chiaro. Ma qualcosa si è messo in moto. Poi, dipende molto dal parroco: la gente torna ad andare a messa la domenica se trova parroci che hanno umanità e cuore”, a prescindere dalla parrocchia.

sir

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