#Rio2016 è il giorno dei rifugiati, in gara per la vita

“Partecipare a un’Olimpiade è un’opportunità di mostrare che i rifugiati in tutto il mondo sono persone che, prima di fuggire, avevano una vita, una storia e un lavoro. La nostra presenza può essere una forma di cambiare il modo in cui siamo visti”. A Rio è il giorno della rappresentativa dei Rifugiati, e proprio oggi all’aeroporto Tom Jobim ne arrivano otto: cinque atleti originari del Sudan del Sud, un maratoneta dell’Etiopia e due judoka della Repubblica Democratica del Congo. Il resto della squadra, i due nuotatori siriani Yusra Mardini, 18 anni, e Rami Anis, 25, sono nella Città Meravigliosa da martedì scorso, si trovano quindi anche già al villaggio e dalla zona internazionale della struttura raccontano le loro sensazioni e l’emozione che provano con l’avvicinarsi dell’inizio dei Giochi. Parla quasi solo la ragazza, che spera tramite la sua presenza nella gara dei 200 stile libero di riuscire a fare in modo che i rifugiati vengano d’ora in poi visti in modo diverso. Yusra, che faceva parte della nazionale siriana di nuoto fin dal 2012, è una sorta d’eroina, fuggita poco più di un anno fa dalla guerra civile che ha devastato il suo paese e arrivata sull’isola greca di Lesbo a nuoto, spingendo insieme alla sorella Sarah, anche lei nuotatrice, e ad altri due ragazzi il gommone, strapieno di persone, sul quale si trovavano fino a poco prima e che si stava per ribaltare in mare.

Il loro gesto salvò delle vite umane, ma lei non ne fa un vanto (“non avevo paura di morire, sapevo che a me e mia sorella non sarebbe successo niente, grazie al nuoto – racconta – e se non fossi riuscita a salvare quelle persone non me lo sarei mai perdonato. In Siria, oltre ad allenarmi con la nazionale, lavoravo in una piscina come bagnina”), e ora pensa all’Olimpiade carioca, in cui l’obiettivo primario sarà quello di “divertirmi, perché non credo di poter andare oltre le semifinali. Ad un’eventuale medaglia penserò a Tokyo 2020, Rio è invece l’occasione di ricominciare la mia vita da atleta. Ciò che desidero è soprattutto avere un futuro”. Intanto, dopo essersi stabilita in Germania dove l’allena coach Swen Spannekrebs dello Spandau Berlino, ha tagliato un traguardo che ormai, con la guerra, le devastazioni e i morti che ha visto, le sembrava irraggiungibile. “Se ripenso al mio ultimo anno quasi non ci posso credere – dice questa ragazza molto più matura dei suoi 18 anni -. Dalla sofferenza sono passata alla piscina di queste Olimpiadi e mi sembra incredibile. Ora qui a Rio sogno di poter incontrare Michael Phelps e Ryan Lochte e di avere il tempo di visitare quella statua…il Cristo (del Corcovado n.d.r.)”. “Spero che il mio esempio faccia capire che bisogna sempre guardare avanti – continua la nuotatrice del team dei Rifugiati, che indossa tuta e polo con l’emblema dei cinque cerchi -, e che non è la fine del mondo se nella vita ti trovi a dover fare fronte a dei problemi. A quel punto, devi ritrovare la forza che hai perso, e cercare di raggiungere i tuoi obiettivi, anche se a volte mi sembra che la guerra in Siria non finirà mai”.

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