IL tramonto del sacro

A commento del mio articolo Paolo di Tarso o dell’intransigenza della fede, pubblicato su questo blog in data due febbraio 2016, ho ricevuto le riflessioni della Redazione del sito internet www.valdesi.eu fattemi pervenire dalla gentile Daniela Michelin Salomon. In breve, le critiche che mi vengono rivolte concernono la mia visione laica delle scritture ebraico-cristiane, delle quali, in ottemperanza al mio ruolo ecclesiale, sarei tenuto a professare la sacralità.Vorrei pertanto concentrarmi su due aspetti che, con ogni probabilità, le lettrici ed i lettori di MicroMega daranno per assodati e che, al contrario, sono ancora oggetto di discussione in ambito teologico, anche quando la riflessione si svolga in seno a realtà più aperte alle istanze del pensiero moderno come sono le chiese protestanti storiche.

In prima istanza, voglio sottolineare con fermezza il fatto che le scritture di riferimento della tradizione cristiana andrebbero definitivamente de-sacralizzate: il riferirsi ad esse come all’espressione diretta ed inequivocabile della volontà divina rappresenta un assunto, per quanto diffuso, in tutto e per tutto pre-moderno. Ritenere che i testi biblici siano parola sacra, significa metterli preventivamente al riparo da ogni lettura critica, storico-sociale e psicologica: atteggiamento che restringe in maniera drammatica lo spettro di significati che, al contrario, ogni testo letterario è in grado di aprire ogniqualvolta lo si lasci libero dai lacci della codificazione normativa o dogmatica. Testo è parola che rinvia all’atto della tessitura, il quale va preservato nella sua originaria intenzione creativa e salvaguardato dai tentativi di omologazione che ogni prospettiva dottrinale pone inevitabilmente in essere. Chi tesse intreccia, mentre chi insiste sulla sacralità di un testo finisce per rinchiuderne le pagine in un isolamento che lo svuota di senso, poiché la radice sanscrita sacer indica esattamente ciò che è separato: e questo la lettura dogmatica ha fatto con i testi biblici, rendendoli estranei, perché sovra-ordinati, alla vita, dalla quale invece essi germinano e con la quale intendono procedere nell’intreccio della mutua interrogazione e della reciproca provocazione.

Questa “circolarità aperta” è ciò che caratterizza l’atto interpretativo che, per rimanere tale, non può accettare la reductio ad unum che l’impostazione dogmatica non propone ma esige, cessando in tal modo di lasciarsi interrogare dal testo ed impedendo al lettore di modificare il proprio pensiero e la propria sensibilità. La dottrina non si limita ad orientare la riflessione, ma finisce per sclerotizzarla, mentre la libera interpretazione intende suscitarla, inserendola in un movimento costante, in seno al quale ogni interrogativo è legittimo ed ogni risposta provvisoria, poiché fonte di una nuova domanda.

Inoltre, la presunta sacralità del testo impedisce l’onesta valutazione secondo cui alcune prospettive etiche riscontrabili nelle scritture ebraico-cristiane siano, come di fatto sono, contestuali e culturalmente connotate: pertanto, come ho già sostenuto, è importante sottolineare senza tentennamenti che quando leggiamo le epistole paoline è Paolo e non Dio a parlare.

Diversamente, saremmo costretti ad universalizzare prospettive etiche particolari e, in più di un aspetto, incompatibili con la modernità e con le sue conquiste in ambito di riconoscimento dei diritti umani, circa le quali non ritengo auspicabile tornare indietro.

Insomma: anche in ambito di interpretazione scritturale, l’unica autorità è rappresentata dalla ragione, nella sua duplice funzione critica ed immaginativa: la sacralità, sia essa quella del testo o dell’autorità che si erge a suo unico ed infallibile interprete, va definitivamente derubricata, se non vogliamo che l’essere umano venga perennemente relegato in quello che Kant definiva opportunamente lo stato di minorità.

L’altro aspetto su cui intendo soffermarmi più brevemente riguarda un interrogativo diverso, ma non meno nevralgico: la mia libertà d’indagine e d’interpretazione deve essere limitata dal ruolo che rivesto? In termini espliciti: il fatto che io eserciti il ministero pastorale in seno ad una chiesa, significa che io debba mortificare il pensiero e prediligere l’ipocrisia quando gli studi e la riflessione mi conducono a pensare che la codificazione dogmatica di una fede che è esperienza di vita sia da rifiutare nelle sue conclusioni e, ancor più, nel suo metodo anti-storico e intrinsecamente autoritario?

Il pensiero, fortunatamente, non conosce restrizioni né ammette autorità che ne limitino il libero esercizio: è per questo che l’eresia, termine che rinvia alla capacità di operare una scelta, rappresenterà sempre il cuore di una fede indomita perché mai paga delle soluzioni approntate dall’ortodossia per mettere a tacere il dissenso.

Alessandro Esposito (pastore valdese in Argentina)

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