Un prete arrestato per stupro dopo cinquant’anni

Quando Nick Garza andò alla polizia per denunciare che sua figlia era scomparsa da due giorni, il poliziotto di turno gli rispose che probabilmente era fuggita con un ragazzo. Nel 1960, a McAllen, in Texas, a due passi dal confine con il Messico, le ragazze di buona famiglia non facevano certe cose, ma dopotutto Irene era bella, ispanica e sorrideva troppo.

John Feit nel 1961. - Bettmann/Corbis
John Feit nel 1961. (Bettmann/Corbis)

La famiglia Garza aveva una tintoria ben avviata, viveva in un quartiere misto ed era discriminata un po’ meno di tanti altri ispanici. Irene aveva 25 anni, la pelle chiara, era intelligente e beneducata. Aveva vinto un paio di concorsi di bellezza, aveva studiato all’università e lavorava come maestra in una scuola per bambini poveri. Era una fervente cattolica, pregava spesso e andava a messa tutti i giorni.

Il pomeriggio di quel sabato santo, Irene Garza era andata a confessarsi nella sua parrocchia, la chiesa del Sacro cuore. Nessuno la vide più viva. Il lunedì, quando una delle sue scarpe spuntò in una strada vicina, la polizia dovette ammettere che era successo qualcosa. Due giorni dopo trovarono il suo cadavere in un canale: l’avevano picchiata, asfissiata e stuprata quando era già in coma. Il crimine scosse tutta la zona.

Non era facile, nel Texas del 1960, accusare un sacerdote. Dopo alcuni mesi la giustizia decise di non incriminarlo

Gli ispanici erano sull’orlo della rivolta e la polizia dovette darsi da fare. Cento ranger cercavano indizi ovunque, cinquecento sospetti furono interrogati, sessanta persone furono sottoposte al test del poligrafo. Nel giro di un paio di mesi gli investigatori sapevano quasi tutto di Irene, ma non come era morta.

O meglio, lo sapevano, ma cercavano di non saperlo: il principale (e l’unico) sospettato era un sacerdote giovane e forestiero, John Feit, con cui Irene si era confessata quel pomeriggio. Il suo racconto era pieno di contraddizioni: Feit non aveva un alibi, e sul suo corpo c’erano diverse escoriazioni che sembravano graffi. Il suo proiettore di diapositive era stato ritrovato nel canale, legato al cadavere come una zavorra. Lui disse che gliel’avevano rubato.

Le indagini proseguirono: non era facile, nel Texas del 1960, accusare un sacerdote. Dopo alcuni mesi la giustizia decise di non incriminarlo. Il parroco del Sacro cuore, confessore e amico dei Garza, disse alla famiglia di non affliggersi: se la chiesa avesse scoperto che Feit era l’assassino, gli avrebbe inflitto un castigo peggiore di qualsiasi pena immaginabile dalla giustizia terrena. Feit fu trasferito in un monastero, ma non riuscì ad adattarsi: dopo pochi mesi riprese a lavorare in parrocchia.

Una nuova vita

Nel 1972 lasciò la tonaca, si sposò, ebbe dei figli, lavorò come assicuratore in Arizona e il caso restò sepolto. Fino a quando negli ultimi anni due sacerdoti ormai molto anziani, il parroco di McAllen e il superiore di quel monastero, hanno deciso di scaricarsi la coscienza per non trovarsi a rispondere davanti a tribunali più alti, e hanno rivelato che Feit aveva confessato il suo crimine. Entrambi lo sapevano da cinquant’anni. Non lo avevano mai detto perché la loro istituzione gli aveva insegnato a non consegnare i suoi membri alla giustizia degli uomini.

Che a sua volta non ci ha fatto troppo caso, finché un candidato alla procura del distretto di McAllen, che oggi è la città più ispanica e obesa degli Stati Uniti, ha promesso di riaprire il processo per conquistare il sostegno degli ispanici. Qualche giorno fa, con cinquant’anni di ritardo, John Feit è stato arrestato per lo stupro e l’omicidio di Irene Garza.

Ha 83 anni e sembrava sorpreso: “Quell’uomo non esiste più”, ha detto, riferendosi a se stesso da giovane. La giudice di primo grado gli ha risposto che il crimine non era caduto in prescrizione, riaprendo una delle questioni più discusse in quest’epoca di memoria e smemoratezza: quando finisce un crimine? O meglio: quando cessa di meritare un castigo? A meno che in queste due domande a essere di troppo sia la parola “quando”.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è uscito su El País.

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