La marchesa molestata dal parroco. IL retroscena del delitto Casati Stampa

Era nata in un paese del Beneventano che si chiama Amorosi e forse non avrebbe potuto venire alla luce in un posto che avesse nome diverso. L’amore fu al centro della vita di Anna, l’amore fu la causa della sua morte. Anna come ce ne sono poche: bizzarra, insaziabile di vita, dotata di una sensualità irresistibile, benedetta da una bellezza ruvida, danneggiata da un’infanzia infelice. Era nata nel 1929 e presto separata dalla sorella: lei viveva con una zia, la madre si era rifatta una vita dopo una prima relazione finita male. Anna Fallarino s’era trasferita a Roma giovanissima, accecata dalle luci di Cinecittà. Sognava la gloria. E nella sua breve vita (fu uccisa a 41 anni) ricordava a tutti di aver partecipato al film «Totò Tarzan», una delle tante comparse belline di quei tempi. Era cresciuta senza troppe regole e soprattutto senza una figura paterna accanto. Dunque a venti anni era una procace bellezza mediterranea con fianchi e spalle cesellati ed un viso furbetto che rifuggiva da qualsiasi imperfezione. Affamata d’amore. Affamata di vita. Non era, come venne descritta dalla stampa scandalistica, una ninfomane, affatto. Era una donna che voleva tutto quello che non aveva avuto e ciò significava adattarsi alle esigenze altrui, se fosse il caso di farlo. Ma, come ha rivelato la nipote Mariateresa Fiumanò, nel suo libro «La marchesa Casati», aveva anche una sorprendente dolcezza nei confronti dei bambini e sognava di averne, almeno un paio. Di lei si conoscono vita, morte e miracoli. Quello che non si conosceva (e che rivela proprio la nipote) è un segreto che Anna aveva tenuto per sé. A 12 anni, quando ancora il sesso era argomento di cui non conosceva le trame, fu molestata pesantemente dal suo anziano parroco, Don Luca. Prima nel confessionale, poi in canonica.

Una violenza sessuale che lei provò a raccontare alla zia, ricevendone solo un paio di schiaffi. Di sicuro stava mentendo, don Luca era un così brav’uomo, le fu risposto quando in lacrime rivelò quanto le era accaduto. «Da quel momento feci di tutto per cambiare chiesa e non doverlo rivedere più», disse Anna alla nipote molti anni dopo. Raccontò i dettagli di quel segreto che pesava sulla sua anima: «Lui era il mio confessore, io lo consideravo come un nonno buono e comprensivo e gli confidavo ogni cosa col cuore in mano. Non c’era niente di scandaloso, a quei tempi, da raccontare, tra l’altro. Ma un giorno lui cominciò a chiedermi dei ragazzi che frequentavo e delle azioni peccaminose che commettevo con loro o da sola. Chiedeva i dettagli, dentro il confessionale, era sempre più curioso. Io all’epoca non avevo niente da dire. Un giorno chiese con particolare curiosità anche dettagli relativi al mio fisico. Io istintivamente fuggii, ma lui m’inseguì e mi disse “dove vai stupida ragazzina”. Mi costrinse a subire le sue attenzioni malate ed io muta, incapace di dire niente o fare niente, scioccata. Non servì a nulla raccontare tutto alla famiglia, nessuno mi credette, anzi mi sentii dire che volevo mandare in galera un innocente».

Quell’esperienza turbò profondamente Anna, che all’epoca dei fatti era ingenua e non conosceva ancora le pieghe malate della vita, e forse condizionò indelebilmente la sua esistenza. Rimosse, almeno apparentemente, quell’episodio che l’aveva segnata più di quanto non credesse e crebbe indurita dagli eventi. Quel tormento non l’aveva digerito, ma andò avanti e decise di fare un buon matrimonio per «sistemarsi». Sposò l’ingegnere Giuseppe Drommi e tuttavia durante il Festival di Cannes nel 1959 incontrò il facoltoso marchese Camillo Casati, di cui divenne amante. Lui perse la testa per lei fino a farle ottenere l’annullamento delle nozze (si dice che pagò un miliardo). Si sposarono lo stesso anno e andarono a vivere in via Puccini a Roma, in un appartamento a due piani. Al terzo abitavano loro, al quarto la servitù. L’aveva arredato proprio Anna, di colpo entrata nel gotha della nobiltà italiana dalla quale era guardata con disprezzo. «Quelle vecchie bagasce», commentava lei. Tuttavia, volessero o non volessero, tutti erano costretti ad ammirarne la bellezza. Quello tra il marchese Casati, padrone di immobili sfarzosi e finanziariamente più che abbiente, e Anna Fallarino, fu un matrimonio che fece scalpore. Lui era uomo che non si compiaceva del titolo nobiliare e la frequentazione con donne del popolo non l’aveva mai infastidito. Tuttavia rivelò, fin dai primi giorni di matrimonio, una curiosità insaziabile verso l’erotismo più smaliziato che prevedeva l’«utilizzo» di maschi prestanti che dovevano fare l’amore con la moglie. Lui fotografava e osservava, aveva praticato un foro nella parete della camera da letto della villa di Zannone, scriveva in un diaro tutto quello che succedeva nel letto della moglie o sugli scogli di Zannone, l’isola che i Casati avevano in affitto dal 1922 e dove si svolgevano festini a luci rosse. Anna s’adeguava, compiacente. Felice di piacere, con un gusto morboso verso quel legame torbido. Il marchese era la figura paterna che non aveva avuto e ne era soggiogata, ne esaudiva i desideri. In cambio lui le aveva dato un’identità. L’identità che le era mancata. Festini, incontri con militari, giovani palestrati, movimentarono la vita matrimoniale della marchesa, gestita dal marito. Fatale fu per Anna Fallarino l’incontro con Massimo Minorenti, uno studente che aveva la fama di «picchiatore», un ragazzo che era stato pagato da Casati per avere rapporti sessuali con sua moglie. Non aveva messo in conto, Casati, che Minorenti e Anna potessero innamorarsi. Circostanza che si avverò e che lo gettò nella disperazione. Il 30 agosto 1970, Camillo Casati tornò nell’abitazione di via Puccini di corsa, allontanandosi da una battuta di caccia, dopo aver saputo che Minorenti era proprio in quell’appartamento insieme alla moglie. Stravolto, chiese ai cinque domestici di non disturbarlo, quindi entrò nel salotto, dove lo aspettavano Anna e l’amante. Non ci fu discussione. Il marchese sparò tre colpi con il suo Browning calibro 12 alla moglie e poi due all’amante, che aveva afferrato un piccolo tavolo nella speranza di ripararsi. Lasciò l’ultimo colpo per sé. La servitù, nel frattempo, allarmata dagli spari, aveva chiamato la polizia, senza tuttavia entrare nella stanza. In un’intervista a L’Europeo, l’agente Domenico Scali ha ricordato: «Il primo corpo che vidi fu quello di Anna Fallarino. Mi sembrò ancora viva. Era seduta sul divano con le gambe incrociate sopra uno sgabello. Aveva le mani in grembo e il volto sereno. La nota stonata era una macchia scura di sangue sulla camicetta».

IL TEMPO

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