L’onda anomala dell’immaginario

Che anno è stato il 2015? E soprattutto come l’immaginario ne ha sintetizzato, restituito, o meglio ancora sfidato le continue «provocazioni»? Guerra, morte in rete il flusso del mondo in tutte le sue possibili declinazioni a getto continuo. Una vertigine di fronte alla quale le immagini si devono allenare per rimanere dentro la realtà. E per produrre quegli scarti necessari a restituirne le crepe, i contrasti, le dissonanze. Proviamo qui a tracciare un percorso (parzialissimo) nelle visioni dell’anno che se ne va.

Facciamo cambio
Che seccatura è il corpo. Se non ci fosse avremmo trascorso un 2015 molto più tranquillo e non saremmo stati costretti a vedere così tante moltitudini che hanno fatto di tutto per farsi notare. Masse di corpi in cammino, in fuga, in manifestazione, che premono alle frontiere, che dimostrano contro poliziotti violenti, che difendono i propri territori. Non ci saremmo immedesimati in quella signora freddata sulla neve fra due palazzi di Kramatorsk, nell’est dell’Ucraina, e non avremmo sussultato di fronte alla foto di Aylan Kurdi sulla spiaggia di Kos. Ci saremmo risparmiati le code a Expo, le proteste contro le banche, i festeggiamenti per elezioni vinte e tutto sarebbe andato più liscio. Non ci sarebbero stati né attentati, né morti e le città sarebbero rimaste sicure perché per strada non ci sarebbe stato nessuno.

I vantaggi sarebbero molti. Senza i corpi, che hanno bisogno di mangiare e dormire, non ci servirebbero case e energia per riscaldarle. Chiuderebbero i negozi di alimentari, i mercati e i ristoranti perché non s’è mai visto un assente mangiare. Gli stilisti e le aziende di abbigliamento non servirebbero più, così come dovrebbero cercarsi un altro mestiere i medici e gli infermieri, per non parlare dei personal trainer. Ma visto che nemmeno loro esisterebbero, il problema sarebbe risolto alla radice. Diventeremmo tutti belli invisibili, immateriali e iperconnessi, presenti solo con un profilo virtuale sui social network. Non daremmo fastidio a nessuno e non dovremmo più preoccuparci di riparare, nutrire, istruire e divertire questo nostro fardello di carne. Bello eh?
Alzi la mano la mano chi vorrebbe un mondo così. Nemmeno a Zuckerberg piacerebbe, visto che è diventato di recente papà e quindi un corpo che funziona come quello di tutti gli altri ce l’ha anche lui. Diventerebbero tristi persino Salvini e la Le Pen perché con chi se la prenderebbero, poi?

Dopo questo 2015 dove dei corpi e delle relative individualità si è fatto strame, non sarebbe una cattiva idea fermarsi e fare il gioco del Io mi Immedesimo. Invitiamo, per esempio, Orban a immedesimarsi in un padre disposto a camminare dalla Siria alla Germania con la sua famiglia per trovare un tetto e del cibo. Giovanardi a mettersi nei panni di un gay che vorrebbe solo una cosa, sposare chi ama. Schauble in una madre greca che deve scegliere fra pagare l’affitto o la spesa. Il ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti a vivere vicino a uno dei 57 siti contaminati d’Italia e non ancora bonificati.
Se poi il gioco dell’immedesimarsi viene difficile per scarsa immaginazione, facciamo quello del cambio. Facciamo che Erdogan sta per un mese a Kobane a combattere contro quelli del Daesh e Alfano sta un anno nei panni di un figlio di immigrati nato in Italia e che a 20 anni è ancora considerato straniero. Infine, proponiamo a quelli di Bankitalia e Consob di mettersi nelle vesti di un operaio in pensione che ha perso tutti i risparmi per colpa di una banca e di dare loro il proprio stipendio. Dite che non accettano? Dite che per loro certi corpi sono più uguali di altri? Però, che egoisti. (Mariangela Mianiti)

L’anno del surrealismo
Che il cinema politico abbia fatto propria la bandiera del surrealismo, lo abbiamo osservato in due casi. Ce lo aveva suggerito uno dei film più impressionanti dell’anno: Le mille e una notte di Miguel Gomes. Volendosi misurare con la crisi economica, Gomes era partito alla ricerca di fatti concreti: articoli di giornali, personaggi incontrati per caso, quartieri periferici. Cosa c’è di più oggettivo che un fatto, un luogo, una persona? Eppure, mettendosi all’altezza di questa singolarità, ogni singolo appariva strano, assurdo, improbabile. Cercando il reale, trovava solo racconti fantastici. La morale scioglieva il paradosso in una lezione: l’insensatezza è la logica stessa della crisi economica. Il surreale non è maniera di deformare la realtà, è questa realtà che deformata dalla crisi appare oggettivamente assurda.

Ce lo aveva confermato un altro film che uscirà tra due settimane in Francia,Gaz de France di Benoit Forgeard. In cui c’è un presidente eletto dal popolo che in pochi mesi di governo raggiunge livelli mai visti di impopolarità; e che, per risalire la china, si inventa un think tank di persone comuni. Contrariamente a Gomes, per Forgeard il surrealismo non è un risultato. È il punto di partenza. Il suo presidente si chiama Bird e lo incarna uno dei personaggi più sopra le righe del panorama pop d’oltralpe: il cantante e attore Philippe Katrine (vedere per credere il suo clip «Marine Le Pen»). Ma anche qui ritroviamo l’idea che l’attività politica è un incursione nell’esperienza comune. Il presidente è un non-politico. È stato scelto per questo. Eco alla campagna di Hollande, che durante le elezioni martellava sull’idea del «presidente normale».E, come in Gomes, niente appare più ineffabile della normalità. E l’unico modo di darle un volto è immaginare l’assurdo.

Ora, ammettendo per un attimo che questi due casi «singoli» rappresentino un segnale, viene da chiedersi perché il cinema che si misura con la politica si tinga di surrealismo.
Sarebbe borioso pensare che un’ipotesi su un’ipotesi valga un giudizio; ma è chiaro che non è un buon segno. In maniera cosciente (Gomes) o incosciente (Forgeard), entrambi i film avvertono il proprio pubblico che ogni tentativo di resistere alla perdita del senso è vano. Il senso ovviamente è la possibilità di un progetto emancipativo o politico. Gomes, alla fine della sua avventura, è letteralmente catturato dai proletari ammaestratori di uccelli canterini. In quell’hobby incondizionato, ché libero da ogni imperativo ipotetico, il regista coglie una forma, sublime, di resistenza delle classi subalterne al materialismo capitalista.

Solo, con quei proletari là, il borghese illuminato non può allearsi, può soltanto ammirali da lontano. Ogni forma di unità è impossibile, oltre che inutile. Il film di Forgeard riflette una situazione ancora più affliggente. In Francia oggi non c’è più nessun rapporto, non diciamo organico ma nemmeno nostalgico, tra la borghesia intellettuale e il proletariato. Nel suo surrealismo si coglie da un lato l’esigenza estrema del borghese colto di capire qualcosa. Dall’altro il rumore sordo dello spirito che gira a vuoto. (Eugenio Renzi)

Il ritorno di «The X-Files»
Il 10 settembre 1993 veniva trasmessa negli Stati Uniti la puntata pilota di The X-Files. L’inizio di quella stagione, la prima di nove, non ha rappresentato il punto di svolta della televisione statunitense e mondiale. In precedenza, solo per citare due esempi piuttosto rilevanti, erano state create serie come Miami Vice (1984–1990), che vantava tra i produttori esecutivi Michael Mann, e Twin Peaks (1990–1991) di David Lynch e Mark Frost (che tornerà nel 2017).

Tuttavia, The X-Files per la vasta gamma di generi, per la compresenza di una trama orizzontale e di una verticale, per la capacità di coinvolgere il pubblico a livello planetario, in un periodo ancora non conquistato dalla Rete, ha segnato un’epoca. Analisi dei personaggi, confronto con la realtà attraverso la ricostruzione del racconto di finzione, continuo ribaltamento delle tesi, sono solo alcuni degli elementi che hanno contraddistinto la creatura di Chris Carter e che possiamo ritrovare nei prodotti odierni.

Cos’è cambiato da quel lontano 1993? Il dato più semplice è proprio quello delle date di trasmissione: il primo episodio in Italia arrivò a quasi due anni di distanza; l’ultimo della nona stagione a tre mesi. E il prossimo 24 gennaio la prima puntata che segna il ritorno di The X-Files arriva su Fox in contemporanea con gli Stati Uniti.
L’ultima puntata della nona stagione (2002), dal titolo eloquente The Truth, quella nella quale milioni di spettatori aspettavano impazientemente di capire se gli alieni avrebbero invaso il pianeta (oltre al fatidico bacio tra Fox e Dana), sembra lontana anni luce. In balia delle scelte di Italia 1, che cambiava vorticosamente data e ora d’inizio della messa in onda, in molti col loro videoregistratore si ritrovarono con l’episodio tagliato sul più bello. Per fortuna da poco era apparso eMule e tutto cambiò.
È proprio nel modo di usufruire del prodotto televisivo (ma è corretto chiamarlo ancora così?) che la serialità ha trovato la sua reale dimensione in questi venti anni, per niente in conflitto col cinema, casomai in (dis)continuità con la letteratura e le graphic novel. La possibilità di vedere una serie in un paio di giorni (da questo punto di vista Netflix arriva a giochi fatti), senza alcun timore di perdere episodi, valorizzando la lingua originale, ha permesso racconti più complessi e libertà narrative audaci. Un altro modo collettivo,pure se la visione è solitaria (ma anche i romanzi si leggono da soli), di immaginare il contemporaneo e di riflettere sull’esistente. (Mazzino Montinari)

Il Manifesto

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