Cultura: l’assassinio di un prete

Mastro Titta  il 30 ottobre del 1797 a Jesi, mentre i Francesi conquistavano lo Stato Pontifico, eseguiva l’ultima esecuzione dl XVIII secolo, infatti dalle sue memorie sappiamo che l’esecuzione successiva avvenne dopo circa 3 anni il 6 maggio 1800.

Gli avvenimenti della storia proseguivano. Il 10 febbraio 1798 il generale Francese Louis – Aleandre Berthier entra in Roma  e proclama la Repubblica Romana.  Pone fine al domino temporale del PapaPio VI e si sospende  al lavoro di Mastro Titta. Il 7 marzo fu annessa la Repubblica Tiberina e la Repubblica Anconitana in questo modo la neonata repubblica Romana confinava con La Repubblica Cisalpina e il Gran Ducato di Toscana al nord, con il mar Tirreno e il Regno di Napoli a sud e con il mar Adriatico ad est. Anni di guerra e  il 28 novembre la repubblica Romana fu invasa dall’esercito napoletano comandato da un austriaco tale Karl von Mack, con l’appoggio della marina britannica comandata dal noto Ammiraglio Nelson.

Le alterne vicende, politico, militari, posero fine della Repubblica Romana  nel settembre ottobre del 1799 e fu ripristinato lo Stato Pontificio. Il papa Pio VI era stato portato nella fortezza di Valence in Francia e moriva il 29 agosto del 1799. Il collegio dei Cardinali riuniti a Venezia  il 14 marzo del 1800 elessero  Papa Pio VII al secolo Barnaba Chiaromonti che riprese possesso di Roma e dello Stato Pontificio. La vita a Roma  continuava senza che gli avvenimenti storici apparentemente incidessero sulla popolazione, e con il ripristino dello Stato pontificio Mastro Titta smise di fare l’ombrellaio e riprese il suo lavoro.

Un prete tale don Giovanni Lupini abitava in una elegante casina a mezza costa di Monte Mario a Roma, con due serventi, Tota la sua fantesca, una bella e prosperosa ragazza forte e sanguigna e  una nipote  Bettina. Date le poche propensioni alle funzioni religiose di don Lupini, il popolino mormorava, che al prete piaceva la buona cucina, il sesso e le sue seduzioni. Con il Concilio Tridentino la Curia di Roma aveva stabilito che i preti che non dovevano tenersi in casa donne con età inferiore ai 40 anni. Don Lupini gioviale prete, sosteneva che avendo la nipote 19 anni e la fantesca Tota 21, era in regola con le disposizione della Curia poiché la somma delle due donne faceva 40 anni.

In quei giorni intorno alla villetta si aggiravano dei loschi figuri, ma la casa aveva delle solide imposte  e un cane alano faceva la guardia, quindi era certo don Lupini di essere al sicuro, inoltre poco distante sorgeva un fabbricato rustico dove ospitava due famiglie di contadini alle sue dipendenze.

Un vecchio adagio popolare dice ”il diavolo fa le pentole e non i coperchi”. Una vecchia sorella del prete si era ammalata e poiché don Lupini, pensava di ereditare  i suoi possedimenti, mandò la nipote e la fantesca  a prestare le cure alla sorella.

In cuor suo don Giovanni non voleva allontanare Tota la sua fantesca, poiché era molto affezionato a lei; pensando che la  lontananza dovesse essere solo per alcuni giorni si rassegno a privarsene. Dopo la partenza delle due donne, la sera le due contadine servirono la cena al prete, che dopo aver lautamente mangiato e bevuto il  vinello frizzante delle sue vigne di Monte Mario andò a dormire. Durante il primo sonno il prete sentì due mani che lo strozzavano e dopo alcuni sussulti rese l’anima Dio e rimase cadavere sul letto. La mattina i suoi contadini videro la porta della villetta aperta, entrarono e trovarono il cadavere don Luigi  Lupini, inoltre la porta della cantina era aperta ed erano state rubate i cacio cavalli, bottiglie di vino e sulla tavola  vi erano i resti di un pranzo pantagruelico, inoltre trovarono scassata il ripostiglio dove il prete teneva i suoi denari. Questo episodio fece molto scalpore a Roma, più degli avvenimenti storici che riguardavano la Francia e gli altri paesi. Furono chiamati i rappresentanti della legge dello Stato Pontificio, che osservarono la scena del delitto, presero quello che non avevano rubato gli assassini e cominciarono le indagini.

Riportiamo il racconto di Mastro Titta:

“Si venne a sapere che un pizzicarolo di Borgo aveva acquistato dei caciocavalli e dè prosciutti che dovevano essere di compendio del furto. Dietro questa traccia, vennero arrestati: Gioacchino Lucarelli, Luigi De Angelis, Lorenzo Robotti, Giovanni Rocchi e Antonio Mauro, i quali vennero trovati in possesso di troppo maggior copia di danaro, che non comportasse la loro posizione e del quale non seppero giustificare la provenienza. I tormenti aprirono la bocca del Lucarelli, il quale confessò d’esser penetrato, durante il giorno, dal muro di cinta del giardino, d’aver gettata una polpetta avvelenata all’alano, sul far della sera, che lo spense, e quando il prete si fu coricato, d’aver introdotto nella casa i suoi compagni. La matassa del delitto, venne così in breve dipanata. I rei vennero tutti condannati alla forca, quindi i 4 al taglio della testa e delle braccia, da esporsi, per esempio, sulla porta Angelica, e il Lucarelli e il De Angelis ad essere, per giunta, bruciati. L’esecuzione ebbe luogo a Ponte il 6 maggio del 1800, e non offrì nessuno incidente notevole. Parevano proprio nati per il patibolo. Vi si avviarono colla massima indifferenza. Mentre io ne impiccavo uno gli altri assistevano quali spettatori senza batter ciglio. Si sarebbe detto che non fosse cosa che li riguardasse. Quando li ebbi strangolati tutti, dovetti, coll’aiuto del solo mio garzone, distaccarli tutti dalle forche. Quindi incominciò la carneficina. Il palco sembrava trasformato in una bottega da macellaro. Terminata anche questa operazione e deposte le teste e le braccia nella canestra, accendemmo la pira all’uopo innalzata e vi bruciammo i resti sanguinolenti del Lucarelli e del De Angelis. I vapori che si sviluppavano da quel carname in combustione si sollevavano biancastri e diffondevano una puzza nauseabonda. All’albeggiare del giorno seguente i burrini che entravano da Porta Angelica, vedendo il truce spettacolo di quelle teste recise ed infisse alla sommità, livide e contratte, erano presi da un senso di terrore, e molti tornavano indietro fuggendo, quasi avessero paura di dover fare la fine medesima. Risaputasi invece la cosa in città, fu un accorrere di gente infinita. In breve tutte le bettole dei dintorni riboccavano di curiosi, che vi traevano ilari, giocondi e contenti, come se si trattasse di assistere ad una festa. La forte fibra romana non si smentiva. Tutti erano convinti che la condanna era stata giusta e non credendo che malfattori di tale specie meritassero pietà veruna, mostravansi soddisfatti della giustizia eseguita e la festeggiavano. Vuolsi però aggiungere che la splendida giornata primaverile aggiungeva esca a quella gita, quasi processionale.

Quello che sappiamo dal racconto popolare di Mastro Titta, è che ancora una volta le esecuzioni erano un momento di intrattenimento di spettacolo, anche se cruento, e  come tutti gli spettacoli portavano denaro alle osterie intorno al luogo dell’esecuzione, dove i romani commentavano l’esecuzione e ricordavano il delitto di cui si erano macchiati.  Il responsabile della giustizia dello Sato Pontificio tale monsignor Fiscale diede un premio aggiuntivo a Boja de Roma, che sicuramente era certo di esserlo meritato, poiché questa volta erano stati giustiziati dei malfattori che avevano ucciso un prete e la punizione doveva essere esemplare. Le indagini non erano ancora finite, chi aveva ricevuto la refurtiva non era stato ancora trovato. Il messaggio che doveva passare tra la popolazione romana, era che non si poteva uccidere un prete impunemente e tutti i responsabili dovevano essere trovati. Le indagini proseguirono segretamente da parte del tribunale. I rappresentati della legge dello Stato Pontificio scoprirono che il bottino che i ladri avevano preso a don Giovanni Lupini, non lo avevano spartito tra loro ma lasciato presso tal Bernardino Bernardi in un deposito fuori la porta di San Sebastiano. Le autorità quindi perquisirono la casa e il deposito di Bernardino Bernardi e trovarono il resto della refurtiva. Il Tribunale istituì un procedimento anche contro di lui e con delle prove non contestabili al tal punto che il ricettatore confessò che quello che aveva era il resto della refurtiva presa a don Giovanni Lupini nella sua casa di Monte Mario. Nel mese di Luglio del 1800, due mesi dopo la condanna, Bernardino Bernardi fu giustiziato con la forca e il suo corpo squartato, la testa staccata dal busto, esposta  con resti delle membra sopra la porta di San Sebastiano.  Come può capitare ad una  ultima puntata di un racconto ripetitivo, che non interessa più il pubblico, questa rappresentazione, l’intrattenimento, questa ultima crudele esecuzione passò, da parte del popolo romano, inosservata. Per alcuni giorni il corpo squartato di Bernardino Bernardi rimase sopra la porta di San Sebastiano come monito ai viandanti che entravano nella Città Eterna, sede della giustizia  e del governo dello Stato Pontificio  e della “carità cristiana”. Il messaggio era chiaro per coloro che varcavano la Porta  i preti non possono essere uccisi impunemente dai briganti perché saranno puniti dalla giustizia terrena e da quella eterna..

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