La politica estera di Papa Francesco

di Massimo Faggioli

Se il primato della misericordia, il dibattito su matrimonio e famiglia, sessualità e omosessualità, e le riforme nel governo della Chiesa sono i tratti essenziali del pontificato di papa Francesco, la politica estera non è certamente il tratto più caratteristico. Tuttavia, la provenienza di papa Francesco dall’America Latina è il primo dato che cambia (e in qualche caso sconvolge) le coordinate della politica estera vaticana. Tra le conseguenze vi è una riduzione della priorità dello scenario italiano ed europeo: Francesco ha presente la crisi italiana ed europea (come è emerso dalla visita al Parlamento europeo del novembre scorso), ma sono lontani gli anni dell’insistenza sulle «radici cristiane d’Europa». Francesco vede nel mondo contemporaneo «una guerra mondiale a pezzi» e i campi di battaglia sono oggi ad est e a sud della vecchia Europa: Ucraina, vari Paesi in Africa centrale, settentrionale e orientale, Yemen, Siria e Iraq, fino all’Afghanistan.

Sullo scenario ucraino il papa sembra aver scontentato i vescovi cattolici ucraini alle prese con l’invasione russa della Crimea e la guerra civile alimentata dall’esterno: anche in questo caso il realismo del Vaticano punta ad evitare il peggio (la stessa cosa fece Wojtyla per moderare l’ala estremista di Solidarnosc). Il fronte nordafricano è parte della questione globale dell’immigrazione legata in quest’area alla lunga serie di guerre che sta ridefinendo l’area mediorientale (per lo studioso francese Fabrice Balanche «la nuova guerra dei trent’anni in Medio Oriente»). Agli appelli umanitari all’Europa per l’accoglienza dei migranti il Vaticano ha aggiunto inviti ai cattolici mediorientali a rinunciare all’idea di rifugiarsi sotto un tiranno benevolo (come Assad in Siria): ma le convulsioni in tutta l’area stanno spingendo la politica europea a rivalutare i regimi autoritari capaci di reprimere la violenza etnico-religiosa. Una partita dai tempi lunghi è quella cinese (che il segretario di Stato Parolin, già architetto dell’accordo in Vietnam, conosce bene), con timidi segnali di apertura insieme a significative resistenze da parte della Chiesa cinese fedele a Roma e in particolare da Hong Kong.

Lo scenario in cui il Vaticano gioca con maggiore confidenza è quello sudamericano. Il maggiore successo di Francesco è finora quello del disgelo tra Stati Uniti e Cuba, su cui il papa vuole continuare ad investire, vista la decisione di trascorrere a settembre quattro giorni nell’isola prima di approdare negli Stati Uniti per altri quattro giorni (ed è significativo il fatto che la visita a Cuba e negli Usa abbiano la stessa durata). Il papa sarà in America Latina anche dal 5 al 13 luglio, in Ecuador, Bolivia e Paraguay, e sarà particolarmente interessante l’incontro con Evo Morales (presidente della Bolivia dal 2006, oggi al suo terzo mandato). Quanto agli Stati Uniti, all’intesa con il presidente Obama si contrappone un clima di diffidenza dei vescovi statunitensi verso Francesco: il viaggio più difficile del pontificato sarà probabilmente quello negli Stati Uniti, in cui all’atmosfera prevedibilmente distesa della Casa Bianca farà riscontro il passaggio alle Nazioni Unite di un papa per la prima volta proveniente dal sud del mondo, e un discorso al Congresso tutto da vedere (tenendo conto degli orientamenti politici antitetici a quelli di Francesco di gran parte dei politici statunitensi, cattolici compresi). Parte della difficoltà di rapporto tra Francesco e gli Stati Uniti è la politica del Vaticano di Bergoglio verso lo Stato di Israele e in particolare il linguaggio usato dal papa che lega pace e giustizia verso la questione palestinese e che si distingue dal paradigma filo-israeliano della politica estera di Washington e degli alleati più stretti.

Papa Francesco ha meno esperienza diplomatica e internazionale di quasi tutti i suoi predecessori, ma la scelta di Pietro Parolin come segretario di Stato rappresenta certamente un’inversione di tendenza rispetto al corso di Benedetto XVI, ma in parte anche rispetto a Giovanni Paolo II, in cui il segretario di Stato giocava un ruolo di ministro degli Esteri senza molto peso su tutta l’agenda del pontificato, allora pesantemente influenzata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede del cardinale Ratzinger. Parolin gioca a tutto campo ed è membro del “Consiglio dei cardinali” creato da papa Francesco il 13 aprile 2013 che si riunisce regolarmente ogni 2-3 mesi: per questo motivo, comprendere la politica estera vaticana è parte essenziale dello sforzo di comprensione di tutto il pontificato.

Papa Francesco si trova di fronte a due sfide nuove per la diplomazia vaticana. Da un lato la sfida di mantenere alto il livello del personale diplomatico vaticano in un cattolicesimo che è diventato più globale ma allo stesso tempo anche culturalmente meno cosmopolita e più provinciale, e in cui si è fatta meno selettiva la formazione del clero: resta da vedere gli effetti della crisi del reclutamento del clero sui preti indirizzati a questo tipo di ministero. La seconda sfida ha a che fare col ruolo internazionale della Chiesa cattolica nell’era dell’estremismo religioso (Al Qaeda, Isis, Boko Haram, e altri gruppi in Asia e sudest asiatico). Il periodo tra la Seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda è stato il periodo d’oro della diplomazia vaticana, in cui ha prevalso una certa razionalità di tutti gli attori in gioco. Quel periodo è tramontato, specialmente quando si considerano i nuovi attori non-statuali che operano tra la Libia e la Siria e in Africa centrale.

* Docente di Storia del Cristianesimo, University of  St. Thomas (St. Paul, Minnesota)

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