Il conflitto sul potere temporale tra la Curia e Francesco

È UN po’ di tempo che non scrivo sul Papa e del Papa. Spesso ne cito qualche iniziativa, qualcuna delle frasi che quotidianamente dedica ai fedeli che lo ascoltano; mi è anche capitato di esortare alcuni dei nostri uomini politici a seguirne l’esempio perché Francesco non è soltanto il vescovo di Roma che siede sul soglio di Pietro ma, a mio parere, è il più importante personaggio del secolo che stiamo vivendo.

Oggi però dedicherò a lui quest’articolo. Soprattutto per le parole che ha indirizzato all’assemblea generale della Conferenza episcopale italiana e il giorno dopo, durante la messa da lui celebrata a Santa Marta. Sembra a me che in entrambe queste occasioni papa Francesco abbia fatto un passo ulteriore nella strada intrapresa due anni fa dopo il Conclave che lo elesse.

Un ulteriore passo avanti mentre, dietro l’apparenza di una Curia che lo segue quasi unanime nel suo rivoluzionario rinnovamento della Chiesa, l’opposizione curiale si sta organizzando estendendosi anche ad altre Conferenze episcopali, ad altri cardinali e arcivescovi, specialmente in Europa e nel Nord America.

L’Occidente è molto secolarizzato, aumenta la crisi delle vocazioni, si diffonde sempre più il pensiero laico, il numero dei non credenti, degli indifferenti, della religiosità spersonalizzata.
La reazione della Chiesa a questo fenomeno di distacco è quello di arroccarsi nella tradizione, non soltanto teologica ma anche “politica”: in Europa e in Usa sta emergendo una sorta di “moralismo ” con aspetti di fondamentalismo che hanno come bersaglio Francesco e la sua rivoluzione.

So bene che lui non ama e non si riconosce in questa parola anche perché la sua rivoluzione non è altro che ritrovare le antichissime radici della Chiesa dei primi secoli dell’era cristiana. Da quelle radici l’allontanamento avvenne molto presto e coincise con l’inizio del potere temporale. Francesco sta combattendo da due anni contro quel potere temporale e lo aggancia al Concilio Vaticano II.

Questo è lo scontro in corso e di questo parlerò oggi per chiarirlo anzitutto a me stesso (mettere per scritto i propri pensieri significa soprattutto precisare ed esplicitare ciò che era ancora informe e perfino inconsapevole) e poi a quanti mi faranno l’onore di leggermi.
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Ho visto pochi giorni fa un vecchio e bellissimo film che ha come protagonisti Robert De Niro e Jeremy Irons ed è intitolato “Mission”. Non starò a raccontarlo, ma in qualche modo ha a che vedere con le dinamiche che papa Francesco ha messo in moto nella Chiesa di oggi.

La sostanza del film è il drammatico scontro tra due missionari gesuiti e le potenze coloniali Spagna e Portogallo nell’America del Sud settecentesca. I due missionari guidano una tribù di nativi in una terra vergine sulle sponde di un fiume e di un’immensa cascata. I nativi indios sono di giovane e giovanissima età e i missionari li hanno convertiti a Dio e civilizzati. Ma questo loro ingresso nella vita civile non piace affatto ai mercanti di schiavi che commerciano in quelle terre traendo dallo schiavismo notevoli ricchezze e non piace neppure alle potenze coloniali europee che sono presenti in Brasile, in Uruguay e in Argentina dei quali il fiume è una via d’acqua comune.

Alla fine un arcivescovo gesuita arriva alla Missione che ormai è diventata un villaggio perfettamente organizzato. L’arcivescovo si compiace con i suoi confratelli per aver civilizzato quegli indios, ma gli impone di distruggere il villaggio e rimandare gli indios nella foresta dalla quale provengono. I due missionari non capiscono quello strano modo di ragionare ma l’arcivescovo gli spiega che se la Missione non sarà rinnegata, il villaggio distrutto e gli indios di nuovo inselvatichiti nella foresta, i soldati delle potenze coloniali stermineranno tutti, missionari compresi. Per di più l’arcivescovo ha timore che i governi di Madrid e di Lisbona facciano pressioni sul Papa affinché sciolga l’Ordine dei gesuiti che sta prendendo nelle colonie dell’America del Sud molte iniziative analoghe a quella Mission. Tutto questo deve essere dunque impedito, evitato, represso.

Questa è la storia che il film racconta terminando con i soldati spagnoli che distruggono il villaggio e uccidono i suoi abitanti compresi i due missionari che hanno rifiutato di obbedire al loro arcivescovo.

Questo episodio non è inventato ma realmente accaduto e il film lo racconta con grande efficacia umana. Lo cito perché, senza ovviamente raggiungere quella sanguinosa drammaticità, un conflitto interno alla Chiesa di oggi si sta verificando ed è ancora una volta motivato da uno scontro tra chi vuole abbattere il temporalismo che domina la vita ecclesiastica da sedici secoli e chi vuole a tutti i costi mantenerlo in nome della tradizione.

Il protagonista di questo scontro è un gesuita eletto Pontefice il quale tra le altre sue iniziative proprio in questi giorni ha beatificato  –  la cerimonia ieri a San Salvador  –  l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero che fu ucciso sull’altare mentre celebrava la messa nella cattedrale della sua diocesi di San Salvador trentacinque anni fa dagli squadroni della morte di quel Paese che erano banditi e assassini assoldati dal governo salvadoregno.

La beatificazione di Romero era stata sempre rinviata nonostante le vive pressioni di don Vincenzo Paglia che da molto tempo insiste affinché quel riconoscimento fosse compiuto. Le resistenze erano motivate dal fatto che Romero aveva riconosciuto, aiutato e solidarizzato con gli esponenti della teologia della liberazione, condannati invece e scomunicati da papa Wojtyla per la loro dichiarata simpatia col marxismo e con il ribellismo di Che Guevara.

Papa Francesco queste cose le sa ma ciò nonostante dopo appena due anni di pontificato ha deciso la beatificazione di Romero, il che conferma che i gesuiti “buoni” coltivano dentro di loro lo stesso spirito del fondatore della Compagnia. È vero che ci sono stati anche gesuiti “non buoni” il cui temporalismo raggiunse il culmine proprio nel XVIII secolo in Spagna, in Francia, in Italia. Voltaire e gli Illuministi ne furono gli avversari più fieri bollandoli come reazionari e fautori dell’alleanza del trono con l’altare. Voltaire li definiva infami e quell’infamità raggiunse un tale livello da obbligare la Chiesa a sciogliere l’Ordine che fu poi ripristinato dopo qualche decina d’anni.

I conflitti che agitano la Chiesa si sono verificati anche all’interno della Compagnia. Ma nell’ultimo mezzo secolo la guida di essa è sempre stata riformatrice e moderna, spesso contestata dalla Curia vaticana. Del resto papa Francesco ne è l’esempio più eloquente.
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La sua allocuzione alla Conferenza episcopale italiana non nasconde alcune differenze tra Francesco e i vescovi riuniti nella sala del Sinodo. Il Papa parla ai suoi confratelli con dolce fermezza e li invita a raggiungere obiettivi nuovi abbandonando quelli ormai non più adeguati al tempo che stiamo tutti vivendo. Ecco alcuni passi che mi sembrano molto significativi.

“Gesù disse: “Voi siete il sale della terra, ma se il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato?”… È assai brutto incontrare un consacrato abbattuto, demotivato o spento: egli è come un pozzo secco dove la gente non trova acqua per dissetarsi… La sensibilità ecclesiale comporta di non essere timidi o irrilevanti nello sconfessare e sconfiggere una diffusa mentalità di corruzione pubblica e privata che è riuscita a impoverire senza alcuna vergogna famiglie, pensionati, lavoratori, scordando i giovani, sistematicamente privati di ogni speranza nel loro futuro e emarginando i deboli e i bisognosi. La sensibilità ecclesiale si manifesta anche nelle scelte pastorali dove non deve prevalere l’aspetto teoretico- dottrinale astratto; dobbiamo invece tradurlo in proposte concrete e comprensibili… I laici che hanno una formazione cristiana non hanno bisogno del vescovopilota né di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, economico, legislativo. Hanno invece tutti bisogno di un vescovo-pastore. Ho fatto alcuni esempi di sensibilità sociale indebolita. Mi fermo qui. Possa il Signore mandarci la gioia di riuscire a render feconda la misericordia di Dio con la quale siamo richiesti di dare conforto ad ogni donna ed a ogni uomo del nostro tempo”.

Un vescovo-pastore: è questo che chiede Francesco e non è la prima volta che insiste sulla pastoralità come il requisito principale della Chiesa. Riflettiamo con attenzione su questo suo linguaggio: nel lessico tradizionale della Chiesa e nella sua struttura organizzativa e sacramentale, il vescovo è il successore degli apostoli, possiede la potestà di “sciogliere o legare” i fedeli, di amministrare i sacramenti, di interpretare e spiegare i misteri della morte e la nuova vita che ci attende nell’aldilà. I preti sono delegati dal vescovo e svolgono per delega le sue stesse funzioni. Ma in tutte le altre sette cristiane protestanti, il vescovo e i sacerdoti sono soltanto “pastori”. E del resto, stando ai vangeli, gli apostoli chiamavano il Signore con la parola ebraica “Rabbi”, cioè maestro, cioè pastore.
Il temporalismo protestante  –  con l’esclusione degli ortodossi in Russia  –  è molto debole e quasi inesistente, se non altro perché le sette sono numerose e autonome l’una dall’altra, con scarsissimi poteri di influire sulla politica del Paese in cui operano. Aggiungiamo che tutti i pastori possono sposarsi ed aver figli.

Che Francesco stia operando per avvicinare le sette protestanti alla Chiesa cattolica non è un’interpretazione di chi segue la sua politica religiosa ma è una verità da lui dichiarata e ripetuta continuamente e avvalorata dai contatti continui con le comunità protestanti. Per non parlare della sua politica verso l’Islam: convivenza e amicizia e comuni iniziative perché Dio è unico e quindi non appartiene ad una religione ma a tutte. Questo è il punto di fondo di Francesco e della sua predicazione: Dio non è cattolico, né musulmano, né ebraico. Dio è di tutti. È una rivoluzione rispetto al passato? Mi sembra difficile negarlo e, come tutte le rivoluzioni, pone problemi nuovi ed estremamente ardui da risolvere. *** Il discorso tenuto a Santa Marta potrebbe intitolarsi quello degli addii. Francesco racconta ai vescovi che l’ascoltano l’addio di Gesù e quello di Paolo sulla spiaggia di Mileto. Qui il tono non è quello tenuto alla Conferenza episcopale, perché il vero tema è quello della morte e della resurrezione. Quest’ultima reca gioia, ma l’addio alla vita è soffuso di dolce tristezza ed anche d’un timore  –  forse inconsapevole  –  del dubbio.

“Nell’ultima cena  –  dice Francesco  –  Gesù si congedò dai suoi discepoli. Era triste perché sapeva di andare alla Passione piangendo nel suo cuore e affidandosi a Dio perché Lui era il figlio, figlio di Dio e dell’uomo, e si affidava a Dio. Ecco qual è il significato dell’addio: a Dio. Anche Paolo si congeda e piange pregando in ginocchio sulla spiaggia di Mileto insieme ai suoi compagni di quella comunità. “Ecco, dice Paolo, io non vedrò più il vostro volto e voi non vedrete più il mio. Per questo piango con voi. Ora lo Spirito mi costringe ad andare a Gerusalemme e non so che cosa mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo mi attesta che non mancheranno catene e tribolazioni”.

Poi Francesco parla del suo addio. “Bisogna fare un esame di coscienza pensando al proprio congedo dalla vita. Anche io dovrò dire quella parola addio. A Dio affido la mia anima, la mia storia, i miei cari; a Dio affido tutto. Gesù morto e risorto, ci invii lo Spirito Santo perché noi impariamo a dire esistenzialmente e con tutta la forza quella parola: addio”.

Questa, diciamolo, non è una rivoluzione ma una profonda umanità. Verso tutti ed anche verso se stesso. Se c’è una persona in questo secolo che stiamo vivendo degna d’essere presa a modello, questa è Francesco Bergoglio. Lui ha già dato ad una umanità frastornata, avvilita, cinica, corrotta, frustrata, un esempio di dignità che tutti dovrebbero tentare di imitare con sincera riconoscenza.

di Eugenio Scalfari

repubblica.it

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