“Arredi sacri a casa dell’ex vescovo” La tentazione di Micciché: trasferirsi in Vaticano

L’indagine su monsignor Micciché è arrivata a una svolta. Se infatti negli ultimi giorni di inverno gli agenti delle sezioni di polizia giudiziaria della Forestale e della Finanza avevano effettuato due distinte perquisizioni nella casa di Monreale dell’ex vescovo di Trapani, una villa, e presso l’attiguo bed & breakfast gestito dalla sorella, adesso quegli atti si sono tradotti in un provvedimento giudiziario. All’esito della prima perquisizione, quando si cercavano documenti a prova dell’appropriazione indebita e della malversazione dei fondi per la carità, non erano sfuggiti agli investigatori presenze di manufatti e opere d’arte, mentre la seconda perquisizione era servita a censire tutto ciò che veniva usato come arredo dall’ex vescovo, sia per la sua abitazione, sia per quella destinata alla ricettività turistica. Dai controlli è emerso che molti di quegli arredi provenivano – stando alle tesi dei magistrati, raccontate nel nuovo numero di “S” – da immobili appartenenti alla Diocesi: dall’albergo ricavato a Valderice in quella che una volta era sede della fondazione di padre Campanile, dalla sede della fondazione Auxilium, sempre di Valderice, e a quanto pare anche da alcune chiese. Tutta roba che, secondo l’accusa, monsignor Miccichè non avrebbe potuto detenere: argenteria, arredi sacri, addirittura una fontana. Il valore è ingente: “Stiamo parlando di cifre con cinque zeri”, dice un investigatore.

La Procura di Trapani, che tiene più che mai aperta l’indagine, avrebbe intanto registrato un passo ufficiale dell’ex vescovo verso la Congregazione per il Clero, che sovrintende alle attività dei sacerdoti. Micciché, infatti, avrebbe chiesto un incarico alla Santa Sede e la cittadinanza vaticana. Una circostanza che non trova riscontri ufficiali, ma che farebbe il paio con le vicende che hanno preceduto il sequestro nei confronti del prelato: prima che l’indagine esplodesse, infatti, Micciché aveva chiesto e ottenuto udienza da Papa Francesco, lamentando ancora una volta la rimozione da vescovo, una decisione di tre anni fa che il sacerdote continua a ritenere ingiustificata. Su questa notizia, però, la magistratura trapanese preferisce al momento tenersi abbottonata con i giornalisti.
D’altro canto, è proprio alla Santa Sede che punta la difesa del prelato. I suoi avvocati, secondo quanto trapela dal palazzo di giustizia, avrebbero evidenziato che trattandosi di soldi nella disponibilità del Vaticano non può esistere la contestazione del reato di malversazione, che potrebbe essere fondato solo se si trattasse di fondi sottratti all’erario italiano. Insomma: se anche se anche fosse dimostrato il dirottamento di fondi provenienti dall’8 per mille, infatti, sarebbe il Vaticano a dover procedere contro Micciché, non l’Italia. E visto che quei soldi vengono messi a disposizione della Diocesi dalla Santa Sede, cadrebbe anche l’accusa di appropriazione indebita: anche in questo caso tocca proprio al Vaticano, e dunque non alla Repubblica Italiana, accertare la spesa e verificare che uso si sia fatto di quei soldi. Una mano tesa verso piazza San Pietro.

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