Quella scelta obbligata tra sacrificio e misericordia. Le sfide del dialogo interreligioso

DOC-2699. ROMA-ADISTA. Quel che resta della primavera araba: è attorno a tale questione che si svolgerà la prossima edizione del Forum Sociale Mondiale, in programma a Tunisi – dove il Forum si è già svolto nel 2013 – dal 24 al 28 marzo. Già nel 2013, quella stagione rivoluzionaria che, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, aveva rappresentato una fonte di speranza non solo per i Paesi coinvolti, ma anche per il resto del mondo, aveva mostrato tutti i suoi limiti. Ciononostante, l’edizione tunisina del Fsm, il primo nell’area del Mediterraneo, si era conclusa con un bilancio sostanzialmente positivo (con oltre 40mila partecipanti, 4mila organizzazioni registrate e più di 1.500 diverse attività), offrendo grande visibilità ai movimenti popolari nordafricani, al di là delle non poche contraddizioni emerse (in aggiunta a quelle ben note legate alla natura del Forum), a cominciare dalla sostanziale assenza di un principio unificatore, difficilmente rintracciabile tra le posizioni profondamente diverse delle forze islamiche e di quelle laiche.

A due anni da quell’evento, come ha constatato il Comitato organizzatore del Forum, è ormai evidente che i governi della regione non sono stati capaci di mettere in campo progetti alternativi, «per rispondere alle preoccupazioni dei giovani in cerca di libertà e di lavoro, delle donne in cerca di uguaglianza, dei movimenti sociali in cerca di giustizia sociale». Al contrario, in tutta la regione si susseguono episodi di violenza, i movimenti sociali e democratici vengono criminalizzati, le politiche neoliberiste dettate dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale sono presentate come unica soluzione possibile e «gli interventi stranieri, politici e militari, sono diventati la regola, con l’obiettivo di strumentalizzare l’instabilità interna a beneficio degli Stati Uniti, dell’Unione Europea, della Turchia, dei Paesi del Golfo». È dunque delle crisi, dei cambiamenti e delle violenze che attraversano tutta la regione del Maghreb-Mashrek – dalla Siria alla Libia, dall’Iraq all’Egitto, dal permanente dramma dei palestinesi ai massacri dell’Isis – che si parlerà a Tunisi, nel campus dell’Università Al Manar, senza trascurare le questioni relative alle condizioni dei migranti, alla situazione delle donne e dei giovani, alle esperienze dei nuovi movimenti, e anche – per quanto riguarda la parte più propriamente teologica del Fsm, quella del Forum Mondiale di Teologia e Liberazione – al dialogo interreligioso, alla mobilitazione religiosa ed ecologica per la giustizia e la pace, al rapporto tra religioni, politica e liberazione.
Pace tra le religioni

Ed è in particolare sul dialogo interreligioso che si sofferma, in un dossier apparso sul primo numero del 2015 della rivista di teologia Voices, la Commissione Teologica Latinoamericana dell’Associazione Ecumenica dei Teologi e delle Teologhe del Terzo Mondo (Eatwot o Asett), in vista proprio della sua partecipazione al Forum Sociale Mondiale di Tunisi. Un tema, come evidenzia nella presentazione del dossier il teologo brasiliano Luiz Carlos Susin, di importanza più che mai cruciale, per la causa della pace, dei poveri e della biosfera: «Il nostro tempo – sottolinea Susin – ci ha concesso di vedere per la prima volta la Terra dallo spazio, permettendoci di riconoscere questo piccolo pianeta roccioso, azzurro, bianco e verde, come la nostra dimora nell’immenso universo. Le fotografie ci hanno mostrato quanto siano artificiali le frontiere politiche e le sovranità nazionali. Le nubi e gli uccelli vanno e vengono, senza passaporto, e così anche la contaminazione». E se a questo aggiungiamo la crescita del fenomeno migratorio, «compreso quello illegale, anch’esso senza passaporto» e il moltiplicarsi dei conflitti nell’intero pianeta, si comprenderà chiaramente l’entità della sfida che ci troviamo di fronte: «O arriveremo ad essere una grande famiglia, o smetteremo di esistere». In questo quadro, prosegue Susin, il dialogo interreligioso è diventato uno dei grandi segni del nostro tempo, secondo la tesi ormai celebre del teologo Hans Küng: non ci sarà pace tra le nazioni senza pace tra le religioni e non ci sarà pace tra le religioni senza la conoscenza reciproca e il riconoscimento comune «di ciò che ci rende unici e irriducibili nella ricchezza delle differenze». Il riconoscimento che tutte le religioni sono, come sottolinea la Commissione Teologica Latinoamericana dell’Eatwot, «risposte umane al Mistero Divino e, per questo, possiedono tutte la loro validità e la loro peculiarità irripetibile, il loro carisma e la loro grazia. E, sempre per questo, tutte si complementano e tutte ci arricchiscono». Ma anche, d’altro lato, tutte hanno bisogno di cambiare mentalità e di adottare una visione che sia all’altezza dei tempi attuali, perché siano «incrollabili dinanzi all’ingiustizia, imbevute totalmente di amore, aperte a una visione radicalmente pluralista, coscienti della relazione di fratellanza universale con tutti gli esseri animati e inanimati».

Tanto più necessari, tale conoscenza e tale riconoscimento, considerando i pregiudizi esistenti intorno all’islam, «visto erroneamente da molti cristiani – scrive la metodista brasiliana Magali do Nascimento Cunha – come una religione di natura intollerante, violenta e minacciosa» (per quanto il Corano, come ricorda il benedettino brasiliano Marcelo Barros, ritenga in realtà il dialogo con le “persone del libro”, ebrei e cristiani, «non soltanto possibile, ma utile e buono») e considerato «come un gruppo religioso monolitico», malgrado la «diversità di teologie e di tradizioni di pensiero filosofiche e giuridiche, come pure di forme di devozione popolare».

Nella logica dell’altro

In ogni caso, se «quello che ci unisce è più forte di quello che ci separa» – come evidenzia Patrícia Simone do Prado, della Pontificia Università Cattolica di Minas Gerais, richiamandosi a una quadruplice forma di dialogo: a livello esistenziale, mistico, etico e teologico – la sfida non è, sottolinea Marcelo Barros nel suo intervento, quella di «dialogare a partire dalle somiglianze e dai punti di accordo», bensì quella di «entrare nella logica dell’altro». E ciò vuol dire che l’altro, il diverso, deve essere «accolto così com’è, nella sua differenza radicale», senza che ciò comporti il rischio di una «relativizzazione confusa della propria identità»: si tratta, cioè, di «allargare il nostro sguardo e arricchire il nostro modo di comprendere e vivere la fede, restando aperti alle questioni suscitate dall’incontro e dal dialogo». E neppure va dimenticata la lezione del Talmud a proposito delle interminabili discussioni tra Hillel e Shammai (importanti rabbini del I secolo a. C. che fondarono scuole antagoniste di pensiero ebraico): a un certo punto, ricorda nel suo intervento Michel Schlesinger, rabbino brasiliano della Congregação Israelita Paulista, «si udì una voce dal cielo che diceva: “sia queste che quelle sono parole del Dio vivente, tuttavia la legge sarà quella determinata dall’opinione di Hillel”. Al che i saggi si domandarono: se entrambi hanno ragione, qual è il criterio per determinare la legge? La risposta è meravigliosa. Hillel ottenne che la legge fosse stabilita conformemente alla sua opinione perché sapeva dialogare con eleganza: citava l’opinione dell’avversario sempre con rispetto, anche prima di riportare il proprio pensiero». Come Hillel e Shammai, conclude Michel Schlesinger, «non saremo giudicati dalla verità del nostro discorso, perché ogni religione ha la sua verità, ma dall’eleganza con cui porteremo avanti le discussioni».

Così, le tre grandi tradizioni abramitiche, che «hanno in comune la parola dei profeti, dei saggi e della mistica» e anche «le molteplici possibilità di interpretazione», si trovano tutte di fronte a un grande bivio, lo stesso dilemma di Abramo dinanzi alla parola divina: la scelta tra sacrificio e misericordia, tra ostilità e ospitalità. Perché, «se le frontiere hanno ancora un senso, non è per innalzare muri, ma per identificare luoghi di ospitalità, di scambio di doni e di conversazioni senza fine».

(claudia fanti)

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