Per il cardinale Ravasi il nesso tra sacerdozio e celibato non essenziale al sacerdozio

Vi sono eunuchi nati così
dal grembo materno,
ve ne sono altri resi così
dagli uomini, ve ne sono
altri che si sono resi così
per il Regno dei cieli
“.

(Matteo 19,12)

Il linguaggio è forte e la frase è forse la risposta a un’accusa o a un insulto lanciato dagli avversari contro Gesù che non era sposato e contro i discepoli che lo seguivano senza avere con sé le mogli: «Siete tutti degli eunuchi! ». Cristo replica usando senza imbarazzo quel vocabolo infamante, confermando così di non essere sposato, dimostrando la sua libertà nei confronti della tradizione giudaica che imponeva il matrimonio ai maestri della Legge, ma ricordando anche che la sua verginità non era una situazione meramente fisiologica o anagrafica e neppure ascetica, bensì una scelta di dedizione assoluta per il Regno di Dio e nei confronti della sua missione per il prossimo sofferente.

La triplice distinzione che egli presenta illustra questa concezione del celibato o della verginità cristiana. Si parte dagli impotenti sessuali per disfunzioni genetiche e si passa attraverso l’evocazione dei “castrati”, che nell’antico Vicino Oriente erano una vera e propria categoria di funzionari (alla fine, però, rimarrà solo il titolo, come accade per l’eunuco della regina etiope Candace di Atti 8,26-40). Infine, si giunge alla scelta personale e libera dell’astinenza che non è semplicemente astensione da atti sessuali o dal matrimonio, ma è un’opzione positiva per un impegno ideale religioso e caritativo.

È quella verginità che san Paolo esalterà nel capitolo 7 della Prima Lettera ai Corinzi (vv. 25-35), presentandola come segno di donazione totale e interiore per la causa del Regno di Dio. Anche nell’Apocalisse si legge: «Questi sono coloro che non si sono contaminati con donne: infatti sono vergini» (14,4), forse con allusione alla vergine sposa dell’Agnello che è la Chiesa. È evidente che non si propone un’autocastrazione, come accadrà in qualche caso di interpretazione “letteralista” dell’antichità. Il concetto sotteso alla brutalità del termine “eunuco” è, invece, positivo e parla di consacrazione totale dell’essere e dell’amore a un ideale e a una missione.

La scelta consigliata da Gesù non significa, però, disprezzo nei confronti del matrimonio, che è celebrato proprio nella stessa pagina matteana al cui interno è incastonato questo detto di Cristo. Anzi, dello stato matrimoniale viene delineato un profilo alto e l’apostolo Paolo lo definirà un “carisma”, ossia un dono divino offerto ad alcuni (1Corinzi 7,7). Anche la comunità degli apostoli comprendeva uomini sposati, come Pietro del quale i Vangeli menzionano la suocera (Matteo 8,14-15).

La disciplina del celibato sacerdotale farà il suo ingresso ufficiale nel IV secolo, con i Concili locali di Elvira del 306 e di Roma del 386, soprattutto sulla base della scelta di Cristo. Tuttavia, anche dopo, per secoli continuerà a sussistere la prassi del sacerdozio coniugato, come è oggi attestato dalle Chiese orientali ortodosse e cattoliche (con l’eccezione, però, dell’episcopato).

Secondo il concilio Vaticano II, il nesso tra sacerdozio e celibato ha «un alto rapporto di convenienza », sulla scia di una lunga tradizione di insegnamenti ecclesiali e di spiritualità. Questo rapporto – anche se teologicamente non essenziale al sacerdozio – è significativo e fecondo ed è stato illustrato nel 1967 dalla Lettera apostolica Sacerdotalis coelibatus di Paolo VI e ribadito da tanti altri testi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.

28 giugno 2012 – famigliacristiana.it

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