Lo “strano” caso di mons. Giovanni Scanavino

“Padre Giovanni ha fatto quello che ogni vescovo dovrebbe sempre fare: ha amato la gente. Girava per le strade. Parlava con tutti. Ascoltava i problemi di tutti. Entrava nelle case. E forse ha rotto uno status quo. Forse il suo troppo amore ha scombussolato certi equilibri interni (…) è stato come una ventata d’aria fresca a cui probabilmente non tutti, anche a Roma, erano preparati”. A parlare così è Susanna Tamaro, residente da anni vicino Orvieto, nel corso di un’intervista apparsa venerdì 11 marzo sul quotidiano “Il Foglio”.

Il “padre Giovanni” a cui fa accenno è Giovanni Scanavino destituito dal Vaticano, pochi mesi fa, da vescovo della diocesi di Orvieto-Todi e ricondotto all’originaria condizione di monaco agostiniano. A nulla è valsa la mobilitazione della cittadinanza, con in testa il sindaco di Orvieto, Toni Concina, e quello di Todi, Antonino Ruggiano.

Si sono raccolte firme perché restasse al suo posto. È stata dedicata una pagina su facebook stracolma di attestazioni di affetto e stima nei suoi confronti e di dispiacere per il provvedimento, di natura punitiva, adottato Oltretevere. È stata organizzata una grande fiaccolata di solidarietà. Niente da fare. La decisone non è stata revocata.

Dell’incresciosa vicenda, nel tentativo di chiarire diversi aspetti oscuri, si sono occupati Claudio Lattanzi e Stefania Tomba, due validi giornalisti locali, con un libro particolarmente raccomandabile sia per il taglio lineare e comunicativo che per la documentazione riportata.

Senza alcuna partigianeria, “Scacco al monsignore. I retroscena e gli intrighi del caso Scanavino” (pp. 155, Intermedia edizioni, € 12,00) ricostruisce, fase dopo fase, tassello dopo tassello, l’intricato susseguirsi di situazioni che hanno portato nel giro di otto anni ad incomprensioni e ostilità all’interno del mondo ecclesiastico nei confronti di un religioso che aveva improntato il proprio episcopato in modo decisamente innovativo, con un’attenzione particolare per gli aspetti spirituali anziché per quelli politico-temporale e una premura alla Martini e Tettamanzi verso i bisognosi, i giovani, gli indigenti.

Nato nel ’39 a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, agostiniano, studioso, autore di libri di carattere filosofico-teologico, priore, prima, della comunità agostiniana di Milano e, poi, del santuario di Cascia, Giovanni Scanavino viene ordinato il 27 dicembre 2003 vescovo di Orvieto-Todi.

Ha il compito, non certo facile, di succedere al quasi trentennale incarico (dal 1974 al 2003, appunto) di Decio Lucio Grandoni, presule tanto profondamente conservatore (basti ricordare, tra i vari episodi, la difesa a spada tratta di un sacerdote che si era rifiutato di somministrare la comunione ad una signora perché convivente e non sposata, e la dura presa di posizione contro il Todi Festival, giudicato, per alcuni nudi sul palcoscenico, “immorale e trasgressivo”, nonché espressione di quel “libertarismo”, da lui bollato come “negazione della oggettività del bene e del male”) quanto opportunisticamente attento a mantenere buoni rapporti con l’amministrazione di sinistra di Orvieto (favoriti, come scrivono gli autori del libro, dal comune interesse per il “mare di denaro legato alla legge speciale per Orvieto e Todi – ben 190 miliardi di vecchie lire – che consentì alla Chiesa di ristrutturare decine di chiese e conventi (anche quelli in seguito destinati a prevalenti attività ricettive) senza intaccare mai i propri fondi, ma attingendo con evangelica abbondanza ai soldi dello Stato”).

Si aggiunga, poi, la profonda differenza e la reciproca diffidenza tra le due componenti della diocesi, Orvieto e Todi, realtà che da secoli, tra gelosie e rancori, “si guardano lontano senza parlarsi”.
Quando, nel 1986, le due diocesi vengono accorpate in una sola, Grandoni, nativo di Todi, continua ad esercitare il proprio mandato come se fossero due scegliendo come propria sede la residenza episcopale tuderte. Scanavino opterà, invece, per Orvieto ufficializzando il proposito di trasformare il Duomo del Maitani in un grande santuario eucaristico dedicato al miracolo della vicina Bolsena impensierendo sia gli abitanti della città di Jacopone, timorosi di un forte calo del flusso turistico, che il clero locale spaventato da un’eventuale perdita d’influenza sulla diocesi.

“C’è un particolare”, scrivono Lattanzi e Tomba, “rivelato da una fonte della curia, che lascia intravedere come i futuri guai di monsignor Scanavino avessero visto la loro incubazione già in quell’inverno del 2003 al momento del passaggio delle consegne. Dopo aver conosciuto e frequentato per un po’ Scanavino in quel periodo particolare e piuttosto breve, Grandoni era solito ripetere che, a suo giudizio, non era lui la persona adatta a guidare la diocesi”.
Scanavino eredita, tra l’altro, dal suo predecessore l’onere di restituire alla Conferenza episcopale italiana l’ingente somma accumulata dal mancato trasferimento, da parte di Grandoni, alla Cei degli importi derivati dalle compravendite immobiliari.

“Per compensare il debito di un milione e mezzo, la Cei aveva disposto che i trasferimenti destinati alle parrocchie alle parrocchie orvietane, tuderti e bolsenesi, oscillanti annualmente tra i centottontamila e i duecentomila euro, venissero decurtati drasticamente fino a che non si fosse giunti a compensare il milione e mezzo incamerato da Grandoni. La stessa Conferenza episcopale aveva dato disposizione che il debito fosse saldato sotto il vescovo Scanavino e non venisse lasciato “in eredità” al successore, in maniera tale da definire un arco di tempo determinato (il vescovo avrebbe dovuto decadere regolarmente dall’incarico a settantacinque anni, cioè nel 2014) entro il quale restituire l’intera somma all’Istituto centrale per il sostentamento del clero”. Ormai sono stati restituiti circa due terzi.

Se monsignor Grandoni incarna l’ecclesiastico assorbito dal ruolo temporale della Chiesa, Scanavino, al contrario, è dedito a dialogare con tutti attuando in sostanza una rivoluzione silenziosa improntata alla semplicità, pur essendo un raffinato teologo. Il suo modo di fare è immediato, contagioso, che piace molto ai giovani.

La mattina presto corre in tuta ai giardini pubblici, snobba i palazzi curiali romani, ospita i protestanti del Gordon college e, tra lo stupore del clero formalista, un ministro del culto donna a capo della piccola comunità anglicana, paga ogni mese ad una vecchietta in difficoltà economiche la bombola del gas, concede al movimento religioso dei carismatici, che si occupa anche dei carcerati, di potere usufruire di una chiesa. Si differenzia, in breve, radicalmente dal predecessore cui piaceva ostentare il potere e lasciare in piazza Duomo l’imponente Mercedes nera con in bella mostra sul lunotto il pastorale dal pomello intarsiato. Non è difficile, quindi, immaginare che ben presto sia entrato nel mirino delle fazioni clericali diffidenti delle novità e “osservato con un certo interesse” dai vertici d’Oltretevere.

I guai gli arrivano quando, urtando la suscettibilità dei direttori dell’Ufficio pastorale vocazionale della diocesi e del Pontificio seminario regionale umbro di Assisi, accetta di buon grado che nella Comunità di San Venanzo, dove un gruppetto di sacerdoti, bersagliati dalle frange ecclesiastiche conservatrici, ha dato vita a una serie di attività caritatevoli e sociali, siano ospitati alcuni ragazzi provenienti da esperienze negative all’interno di vari seminari.
Per un frate come lui le porte della Chiesa non possono chiudersi a nessuno, bisogna, anzi, offrire a tutti la possibilità di riscattarsi.

Come se non bastasse, consente che a Collevalenza, quindi nella propria diocesi, sia accolto e sottoposto a rieducazione un sacerdote condannato per abusi sessuali su un dodicenne e istigazione all’uso di stupefacenti. Per la cronaca, dietro pressione delle “alte sfere” il sacerdote sarà ridotto allo stato laicale.

Comincia a diffondersi la voce che a San Venanzo, sotto gli auspici del presule,sia attivo un seminario parallelo e concorrenziale rispetto a quello regionale. In Vaticano, anche in seguito alle lettere e alle visite, sempre più frequenti, di preti ostili, cresce l’insofferenza nei confronti dell’anomalo vescovo.

La classica goccia che fa traboccare il vaso giunge dal suicidio, nella notte del 29 novembre 2010, di Luca Seidita, ventinovenne di Matino (Lecce) che, nonostante fosse stato allontanato dai seminari di Molfetta e di Fermo, era fermamente intenzionato a ricevere l’ordinazione.
Luca aveva bussato alla Comunità di San Venanzo e mons. Scanavino lo mette alla prova. Legge le relazioni negative giunte da Molfetta e Fermo senza, però, riscontrarvi alcunché di particolarmente grave. Il ragazzo viene descritto come troppo incline all’indipendenza e con una certa instabilità affettiva. Nient’altro. Soprattutto non c’è alcun accenno ad una presunta inclinazione all’omosessualità. Scanavino lo fa, quindi, seguire e, una volta terminato positivamente il periodo di tirocinio, lo prende sotto la sua tutela come segretario personale.
Luca, divenuto intanto diacono, insiste per l’ordinazione sacerdotale e il vescovo, dopo poco meno di un anno di diaconato, si convince può concretizzarsi il sogno del giovane. Il 29 novembre, però, a sette giorni dalla data fissata per l’ordinazione, arriva alla curia vescovile un fax del Nunzio apostolico in Italia in cui si comunica che se Scanavino avesse dato seguito alle intenzioni avrebbe perso le facoltà di governare, di insegnare e di “santificare”.

Luca non è idoneo. Punto e basta. La vicenda precipita. Il vescovo pretende giustamente lumi su tanto accanimento. Parte subito per Roma, insieme a due sacerdoti e allo stesso Luca che non intende sentire ragioni. Il prefetto della Congregazione per i vescovi non li riceve e, dopo tre ore di anticamera, sono mandati a chiedere udienza direttamente al Nunzio apostolico in Italia. La decisione è irrevocabile.

Quello che è avvenuto dopo, con il tragico epilogo, purtroppo, si sa. A distanza di quattro mesi Scanavino sarà costretto a fare i bagagli e la sua nomina revocata.

“Abbiamo bisogno”, dirà prima di andarsene ai fedeli che gli si stringono attorno, “di vino nuovo per la nostra festa, il nostro non è sufficiente. Solo Gesù può cambiare la nostra acqua”.

notizieradicali.it

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